Il
tema di questa nostra riflessione sul ruolo del “femminile” (più
che della donna) parte dall’analisi di uno dei saggi letterari e,
direi, filosofici, tra i più interessanti della cultura europea del
Novecento, “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf, nel
quale la scrittrice denuncia la mancanza e, nello stesso tempo,
reclama un luogo, uno spazio esclusivo, in cui l’unicità del
femminile trovi la forza necessaria per esprimersi.
L’uomo,
sin dai tempi in cui muove la sua guerra al Mito, per parafrasare
quanto scrive la filosofa Luce Irigaray in “All’inizio, lei era”,
ha trovato sempre più spazio per esprimere la sua parte peggiore,
quella rivolta al dominio, allo sfruttamento della Natura, alla
profanazione del Mistero, all’annientamento del femminile che ha in
sé.
Ciò che manca (sin da allora, sin da quando la filosofia
ha sostituito il mito, sin dal momento in cui l’uomo ha creduto di
poter svelare ciò che non è assolutamente svelabile) è uno spazio
in cui il femminile, (il mistero, ciò che non può essere indagato
con la ragione, ma solo compreso -nel senso di preso insieme - con la
sensibilità, quindi con i sensi, con e nei suoni) possa esprimersi,
possa passare dalla potenza all’atto.
Come faceva la Pizia di
Apollo a Delfi, è necessario che sia il femminile ad aprire quello
spazio in cui l’essere umano possa comunicare ancora con la Natura;
ad aprire un nuovo orizzonte di senso, che va al di là
dell’apparire, del possedere, del desiderio di dominio dell’uomo
sull’uomo.
Occorre però chiedersi se esista un “luogo” in
cui sia possibile tale estrinsecazione, che consenta di evitare la
strada scelta da Virginia Woolf, quella del suicidio, su cui è
indotto l’essere umano privo del suo spazio, un essere sepolto
vivo, come è successo ad Antigone, perché cerca quello spazio.
C’è
da comprendere dove cada l’accento della differenza. La discrezione
si impone nel momento in cui distinguiamo tra donna e femminile. Non
tutto ciò che è femminile è inerente esclusivamente alla donna,
così come il maschile non riguarda esclusivamente l’uomo.
Se
il femminile intende trovare una “stanza” in cui esprimersi deve,
necessariamente, arredare una stanza in cui anche il maschile possa
concretizzarsi e differenziarsi.
Luce Irigaray propone in modo
deciso una differenza sostanziale tra maschile e femminile, una
differenza che per essere reale deve partire da una uguaglianza
sostanziale tra uomo e donna. Ovviamente, quando parliamo di sostanza
lo facciamo in senso aristotelico, tenendo in conto che essa è
sinolo di materia e forma: corpo e femminile; corpo e maschile.
Ognuno deve realizzare ciò per cui è nato: armonizzare il singolo
col tutto; il maschile e il femminile con la natura, che il desiderio
di dominio e calcolo dell’uomo occidentale ha inteso sottomettere,
prima con la ragione, poi con la violenza del corpo e delle armi,
ossia della tecnica.
Ci dobbiamo chiedere a questo punto: “Che
ruolo ha il femminile e che ruolo ha il maschile?”; “Qual è il
compito del femminile, oggi, nell’epoca del massimo sviluppo della
scienza, in cui l’uomo non sa fermarsi, non si pone più limiti né
tabù?”
Ne “La scomparsa di Majorana”, Leonardo Sciascia
ipotizza che l’uomo scienziato sia scomparso (aggiungo io: si sia
fatto mistero, femminile), per impedire che la sua ragione fosse
sfruttata dall’uomo tecnologico per distruggere il patto stipulato
con la Madre Natura.
Questo è solo uno dei modelli che la
storia della letteratura ci dà per indurci al recupero del
femminile, esattamente come con l’esempio di Antigone, il cui
ruolo, in questo senso, è paradigmatico: Ella si oppone al divieto
di dare uno spazio a Polinice e gli arreda una stanza, una tomba. La
di lei compassione è frutto dell’ascolto del femminile che ha in
sé, il quale si contrappone all’uomo della legge, a Creonte, che
spezza il patto col mistero e realizza il codice, il “diritto”,
che impone di non seppellire i traditori. Grazie alla disobbedienza
di Antigone, il “diritto” divine “curvo”, prende la forma
della sfera in cui l’essere umano si trova in armonia con la Natura
e tutti gli altri esseri viventi.
Seguendo Luce Irigaray, il
femminile si smarrisce nel momento esatto in cui prevale la Volontà
di potenza dell’uomo (p. 129)
L’uomo non è più in grado di
“dimorare” ossia trattenersi, abitare, perché ha perso il
femminile e quindi non sa qual è il suo luogo, la sua stanza,
non sa più stare da
solo e occupa il posto della donna e, in questo caso, uccide il
femminile. Ognuno deve avere una stanza tutta per sé per esaltare la
differenza, le differenze.
La differenziazione e la
disobbedienza, indotta dall’aver ascoltato la Natura, ergono
Antigone nel ruolo di garante: essa è lontana dall’uomo del
dominio e calcolo del reale, dall’uomo che intende sottomettere la
Terra, rappresenta quel femminile che si qualifica come portatore
dell’armonia tra l’essere umano e la Terra (la madre Terra).
C’è
da sottolineare che il femminile non sta solo nella donna, ma anche
nell’uomo e solo se si riconoscerà questa realtà si potrà anche
ammettere la differenza tra uomo e donna come ricchezza,
consentendoci di edificare una stanza per Virginia e una per
Polinice, una stanza di acqua che non soffoca e una di terra che non
opprime, visto che si amalgamano, consentendo al germoglio di
diventare pianta, albero, frutto.
I Greci fino a quando si
affidano al mito, non aspirano alla salvezza personale, individuale,
ma all’individuazione di un luogo in cui l’umanità possa vivere
con dignità (L. Irigaray pp. 130/131)
A questo modello
bisognerebbe rivolgersi, per poter comprendere quale sia il ruolo
della donna oggi, perché esso ci induca ad interrogarci su che cosa
sia e dove sia il femminile.
Ciò che si è perso è il rapporto
con la Natura col mistero, con la propria “naturalità”.
Il
maschile e il femminile sono questa naturalità perduta nella
tecnica, la quale, per comodità, per utilità, li ha ridotti e
identificati con l’uomo e la donna, esseri identici e figli della
stessa volontà di potenza; due esseri separati ma identici, i quali
hanno smarrito il sé, la discordanza tra maschile e femminile, il
contrasto tra essi, l’unico conflitto non distruttivo (al contrario
di quello tra uomo e donna) ma generativo, poiché da tale disputa
nasce l’Arte, in tutti i sensi, la quale non è legata alla
categoria dell’utile, come dice Lacan.
Perché ciò possa
riaffiorare è necessario che il femminile riemerga dal lago in cui
Virginia Woolf fu costretta a sommergerlo, occorre che la femminilità
ridoni la sua luce. La Selvatica, come la chiamano Claudio Risé e
Moidi Paregger, è l’unica che possa ricongiungere creativamente
essere umano e natura, il maschile e il femminile presenti sia
nell’uomo sia nella donna.
Creonte seppellisce Antigone perché
ha paura del femminile che ha in sé, lo rifiuta, lo occulta.
Occorre
consentire ad Antigone, dunque, abrogando la legge del dominio, la
quale genera violenza, di seppellire Polinice, in una stanza tutta
per sé, la stanza della differenza. In due stanze separate, ma
comunicanti, staranno il maschile e il femminile, non più
terrorizzati dalla natura, ma essi stessi essenza creatrice, perché
dalla loro unione nascono: l’umanità, la pietà, il coraggio,
l’arte, la vita e dal loro riposo in stanze separate la necessaria
pausa che consente di ritemprarsi nella differenza e di
ricongiungersi, perché mancanti.