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venerdì 22 dicembre 2023

Cantando il dolore

Il mio grande NO

poesie politiche
di Annamaria Barreca
 




Un grande No, è anche un grande Sì, il quale si oppone a tutto ciò contro cui si oppone il proprio No.

La poesia è quello spazio dentro il quale la libertà non può mai venire soppressa: ce lo ricordano i poeti vessati dai regimi, i quali sovente hanno continuato a scrivere anche usando (fuor di metafora) il proprio sangue come inchiostro.

Annamaria Barreca non riesce proprio a digerire la contraddizione del mondo che la circonda; non ammette la noncuranza e, per questo, continua a costruire  con la scrittura la sua città ideale. Si chiede anche, e ci chiede, se la poesia, la sua poesia, possa essere un conforto, uno scudo contro il dolore e anche un terreno fertile nel quale seminare il domani. 

Nell'epigrafe a questo doloroso libretto, la poetessa carica sulle sue spalle le ombre e la morte, per ridare luce e vita a chi è desideroso di ascoltare ancora la canzone dell'amore eterno.

Un canto che non ha tregua, che travalica i muri di indifferenza, eretti dalla paura. La pioggia della Barreca è lontana dalla feconda acqua del D'annunzio, ma, seppur acida e cada su un paesaggio post-atomico, cerca di ridare fiato a una terra arida e deserta.

Al dolore, alla rabbia, alla violenza, al sopruso, al magma del consumismo, che tutto fagocita, Annamaria Barreca dice NO, lo urla nelle orecchie di tutti coloro che si girano dall'altra parte, a tutti coloro che dormono pensando di essere svegli; a tutti coloro i quali sono morti da tempo e credono di essere vivi, solo perché respirano.

Un libro da leggere e rileggere, per non dimenticare di avere una responsabilità... un dovere... un desiderio da alimentare. 

Per amore, solo per amore

Maravigghia

Cunti di Cibi e Luoghi
di Maria Grazia Sfameni





Ci sono libri che non sono facilmente classificabili, perché sono il frutto di una commistione di generi. Uno di questi è senz'altro Maravigghia. Cunti di cibi e luoghi, della scrittrice siciliana Maria Grazia Sfameni. Un piccolo libro nel quale lo spazio della narrazione è un tempo non ancora passato e nel quale il tempo è  spazio ancora da riempire. Il legame che si crea tra il cibo e il racconto della sua preparazione, genera un ponte, attraversato il quale si entra in un'altra dimensione. In questa nuova "casa" ci si trova subito a proprio agio, perché l'accoglienza è intima e festosa.

Il canto della gioia, la generosità del companatico, il gioco di sguardi e le carezze delle tovaglie di lino o dei tovaglioli ricamati, appena poggiati sulle labbra, generano commozione. Impossibile non sorridere, leggendo queste pagine; impossibile non sentirsi il viso rigato da una lacrima...

Nonostante questo, non siamo innanzi a un libro nostalgico, piuttosto un manuale di cucina che cura; no, non un ricettario (anche se qualche ricetta si trova) ma un libro zen, in grado di distendere il viso e l'anima, come quando si entra nella casa di Auguste Escoffier a Villeneuve-Loubet nel dipartimenti delle Alpi Marittime in Francia. Sono  luoghi nei quali la passione è distribuita come zucchero a velo sulla pastiera. 

Che dire, occorre entrare in questo libro e ascoltare quello che l'autrice, alla maniera di una cuntatrice esperta, partecipa al lettore. E così, senza accorgersene, si viene ammessi nel regno dei profumi, nel tempio del gusto. Si resta prigionieri e non se ne esce, senza essere posseduti dal desiderio di assaggiare le pietanze che solo una donna innamorata è in grado di creare, non solo per coloro che ama, ma, grazie a questo amore, per tutti quelli che avranno la fortuna di sedere al loro desco.

Un libro da leggere, da condividere, da donare, con amore, soprattutto a chi è ancora in cerca di una casa...




sabato 19 ottobre 2019

Il primo Fumetto italiano

“La guerra è bella anche se fa male”






Durante i primi anni del Novecento nasce in Italia un periodico destinato a diventare mitico: Il Corriere dei Piccoli, un giornale che ha fatto da apripista al fumetto italiano e che esordisce esattamente il 27 dicembre del 1908 come supplemento illustrato del Corriere della Sera. Esso vive per quasi novant'anni (l’ultimo numero porta la data del 30 gennaio 1996), cogliendo le trasformazioni del secolo e traducendole per il suo giovane e affezionatissimo pubblico.
Il Corriere dei Piccoli ha ospitato narratori e poeti di primo piano, come Gozzano, Buzzati e Milani, ma anche Anatole France e Kipling. Fra i suoi grandi meriti c’è quello di aver introdotto in Italia i Comics americani, già presenti dal primo numero (Buster Brown di Felton Outcault, Bibì e Bibò di Rudolph Dirks e Happy Hooligan, nella traduzione italiana noto come Fortunello, di Burr Opper, solo per citarne alcuni) e di aver ospitato i migliori disegnatori del nostro paese. Ha fatto esordire artisti come Antonio Rubino, padre di Quadratino, Rosaspina, Pino e Pina; Attilio Mussino, ideatore di Bilbolbul, Schizzo, Mario e Maria. Questi artisti, con l’introduzione degli ottonari in rima sotto le vignette, hanno inoltre inventato un “codice” per il fumetto italiano rimasto nell’esperienza culturale di almeno due generazioni di lettori.
Successivamente il giornale si arricchisce dell’attività di Sergio “Sto” Tofano, padre del mitico Signor Bonaventura; di Mario Pompei, creatore di Bice e Baci; di George Mc Manus, ideatore di Arcibaldo e Petronilla; di Sullivan & Messmer autori di Felix the Cat - Mio Mao; di Giovanni Manca, autore di Pier Lambicchi e l’Arcivernice; e di Bruno Angoletta padre di Marmittone.
I protagonisti di questi “comics” sono spessissimo bambini, intenti a ordire scherzi, magari anche crudeli, che però, in omaggio alla morale imperante, alla fine pagano sempre. Ad essi si affiancano personaggi “adulti”, strani, irregolari, che vivono in mondi poco rassicuranti.
Fra le righe di questo prodotto, apparentemente innocente, si cerca di far passare messaggi anarcoidi, dettati da una insofferenza per gli schemi e in aperto contrasto con l’imperante ideale “borghese”, tuttavia in pochi se ne avvedono, ma ne godono pienamente i piccoli italiani di allora, che accolgono con entusiasmo la pubblicazione, decretandone l’enorme successo.
L’Italia di fine Ottocento è quella che si diverte ancora nelle piazze guardando i cartelloni dei cantastorie, mentre questi narrano le vicende di guerre del Ciclo carolingio: dai duelli di Orlando per la bella Angelica, alle lotte all’ultimo sangue tra Arabi e Franchi. Questi “lenzuoli” oltre ad essere “sciorinati” dal cantastorie, sono arricchiti da didascalie, a volte in ottonari in rima, il metro dei grandi poemi di Ariosto.
Risale alla fine dell’Ottocento anche la diffusione del fumetto, che ben si inserisce nel quadro dell’adozione delle mode e dei modi della borghesia internazionale da parte dei ceti privilegiati italiani. Fa parte della “modernizzazione” in atto. Il fumetto in Italia trova il suo pubblico soprattutto nel mondo dei ragazzi, così come lo spettacolo dei cantastorie e dei contastorie aveva affascinato le generazioni precedenti. Immagini con didascalie al margine inferiore, disegni che raccontano guerre, duelli e sangue. Il Corriere dei Piccoli, quindi, da un lato raccoglie un’eredità, quella dei cartelloni dei cantastorie, e dall’altro introduce le innovazioni che giungono dagli Stati Uniti. Una tavola ricca di colori, con scritte e rime, porta nelle case italiane l’America di Richard Felton Outcault e la Sicilia delle storie della Chanson de Roland.
Durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale anche questo giornale, però, viene “requisito” dal “potere” e diviene uno strumento per la diffusione degli ideali bellici, quindi i suoi fumetti si trasformano in fumi di guerra. Soprattutto nelle tavole di Tofolino, Schizzo (apparso dal n. 37 del 1912 al n. 16 del 1919) e Italino. Nel nome di quest’ultimo tutto un programma: uno sfrenato nazionalismo che esalta la guerra come diritto, come atto eroico. I nemici vengono messi alla berlina, derisi e raffigurati sempre come incarnazione di un male che deve essere distrutto con ogni mezzo, e di questo bisognava convincere anche i bambini, soprattutto i bambini.
La peculiarità dei fumetti italiani di tale periodo, che li rende unici, come si è accennato sopra, è anche dovuta ad una scelta tecnica, infatti essi non hanno la classica nuvoletta che racchiude le parole di ogni personaggio: tutti i dialoghi sono scritti in basso, quasi sempre in ottonari in rima, forse perché il pubblico italiano non è ancora pronto all’innovazione grafica che la nuvoletta rappresenta e preferisce conservare la tradizione orale dei cuntisti o forse perché il fumetto italiano non è figlio di quella leggerezza che si può permettere di volare in una nuvola: le parole in rima sono pesanti e cadono in basso, sotto i piedi dei personaggi. La didascalia è una radice, che lega alla terra e ricorda le miserie umane, fatte di violenza e dolore.
Uno dei maggiori disegnatori del tempo, come si è ricordato, Attilio Mussino, nato a Torino nel 1878, celebrato ancora oggi come uno dei più grandi fumettisti italiani, quando esce il primo numero del Corriere dei Piccoli, il 27 dicembre 1908, è già tra i collaboratori e pubblica in quello storico numero il primo “fumetto” italiano, una tavola con la storia del piccolo nero Bilbolbul. Anche Schizzo è uno dei suoi personaggi e sarà tra quelli utilizzati per propagandare le “imprese” militari italiane, esaltando nazionalismo e colonialismo, due dei mali, comuni alle nazioni industrializzate, che porteranno allo scoppio della Prima guerra mondiale.
In un’epoca in cui non c’è il televisore, e la radio non può trovarsi, per ragioni economiche, nelle case di tutti, il mezzo che consente alle idee di circolare con maggiore facilità è la carta stampata e, tra i meno acculturati che non possono leggere lunghi testi scritti, il fumetto, conseguentemente, diventa mezzo da utilizzare per fini politici e propagandistici.
Quelle di Tofolino, Schizzo e Italino, sono tavole dipinte, a colori, che su un giornale fanno effetto: nell’Italia di inizio Novecento non si è abituati al colore, quindi le tavole del Corrierino attirano anche gli adulti, non solo i ragazzi: tutti leggono i fumetti che esaltano la guerra, che mostrano gli “eroini” del Corriere dei Piccoli impegnati in battaglie, alle prese con bombe ed esplosivi, pronti a sconfiggere il nemico, chiunque esso sia.
Su quei fogli mitici, Tofolino, Italino e Schizzo sono ologrammi e scintille, macchie di colore ipnotizzanti, ideate per coinvolgere le masse, per convincere che la guerra è bella anche se fa male, come dice la canzone del cantautore Francesco De Gregori. Questi fumetti Italiani dei primi del Novecento non sono semplici storie illustrate di guerra: essi rappresentato il volgare tentativo di convincere le masse che la guerra è l’unico mezzo, l’unica via, ma che inoltre non è poi così pericolosa, perché basta buttare una bomba ed il nemico viene annientato. In queste tavole del Corriere dei Piccoli, il nemico è spesso un mostro, un essere deforme. A chi farebbe impressione o dispiacere uccidere un mostro, magari nero e con l’osso al naso? Per chi non era mai stato in Africa, i neri dell’Etiopia e dell’Eritrea erano esattamente come venivano illustrati dai fumetti.
La realtà è ben diversa, il nemico non è carne da macello, ma essere umano di spirito e materia. Prima di accorgersi di questo, l’Europa e il Mondo industrializzato, e quindi l’Italia, hanno immaginato e messo in atto il colonialismo e due terribili guerre mondiali, l’ultima delle quali semi-atomica.
I fumetti hanno più volte reclamizzato la violenza, come nel caso del Corriere dei Piccoli di quegli anni, più o meno direttamente, a seconda dei venti.
Nel dopoguerra, terminato il periodo in cui il Corriere dei Piccoli viene utilizzato a fini propagandisitici, i fumetti “moderni”, quelli con le “nuvolette”, guadagnano terreno. Tutto diventa più leggero: le parole cominciano a volare. Grandi storie d’avventura come Prince Valiant di Harold Foster o Anna della Giungla di Hugo Pratt trasformano l’immagine del Corrierino, aprendo la strada alle ragazze moderne di Grazia Nidasio e alle gallerie di personaggi di Cimpellin e Battaglia. L’ultima stagione interessante del giornale è quella degli anni ’60-’70, in cui l’ormai storico foglio ospita grandi personaggi come Lucky Luke, Luc Orient, Spirù e Fantasio.
Il Corrierino, in questa ultima fase, cede il testimone al Corriere dei ragazzi, sul quale compaiono le vicende di Lord Shark, nome che dà anche il titolo ad una serie a fumetti con testi di Mino Milani e disegni di Giancarlo Alessandrini e successivamente di Enric Siò, comparsa sul Corriere dei ragazzi tra il 1975 e il 1976.
La serie è ambientata nell’India di metà Ottocento sotto il dominio britannico. Protagonista è un ufficiale inglese, di nobile famiglia e con uno scandalo alle spalle che lo ha costretto a prendere servizio in un posto nella frontiera settentrionale, dove ha modo di dimostrare il suo eccezionale coraggio in vari combattimenti con ribelli e predoni delle montagne.
La sua fuga in India è legata al rifiuto di condurre all’altare una ragazza che non lo ama, nonostante le famiglie avessero preconfezionato il matrimoni. Lui scappa fingendosi vigliacco, ma in realtà lo fa per consentire a lei di sposare l’uomo di cui è innamorata.
In India, il nostro protagonista viene catturato da un capo ribelle e trascorre molte settimane in condizioni di prigionia tremende, nel frattempo i suoi commilitoni vengono uccisi ad uno ad uno, ma lui ottiene la libertà perché in un’occasione precedente aveva salvato senza saperlo la vita al figlio del capo. Quando ritorna al suo accampamento viene imprigionato dal suo comandante, furente con lui perché, sfinito, non è in grado di rispondere alle sue domande.
Decide così di disertare, aiutato dal suo attendente indiano e, per una serie di circostanze fortunose, si ritrova a capo di una banda di predoni. Con il nome di Lord Shark attua una sfilza di colpi ai danni degli inglesi, limitando al massimo lo spargimento di sangue, ma mettendo in ridicolo sistematicamente i suoi compatrioti, come una specie di Robin Hood indiano.
Tra le pagine del Corriere dei ragazzi, finalmente, la guerra non è più un atto eroico, perché il vero eroismo risiede in un’etica dell’altruismo e della pace, ed il fumetto che tratta questo tema lo fa in modo critico e giammai adulatorio, perché la guerra è brutta e fa male.


domenica 6 gennaio 2019

Un ombrello pieno di pioggia


Un ombrello
pieno di pioggia

di Annamaria Barreca






Continua il viaggio poetico di Annamaria Barreca, tra le sue certezze e le sue numerose titubanze. "Nel deserto della città o nel frastuono dello spazio della memoria" la poesia è pronta a riaccendere desideri sopiti ed a confrontarsi con le lontananze più estreme. 
Perché "un giorno, un giorno con violenta eruzione tutto torna". La poetessa sa aspettare nelle zone d'ombra del padiglione più estremo, e insinua la parola nella testa del lettore. Non appare nessun limite al suo fluire: si inoltra negli abissi bui e non teme neanche la luce, perché è forte come un telescopio e lungimirante come la preghiera di un ateo. "Sono schegge" i versi di Annamaria Barreca, "coriandoli impazziti" nel vortice della pioggia che riempie ombrelli e teste, perché "l'acqua è vita e vita è morte."
Le vie del contrasto fanno presto ad insinuarsi nel cervello e la poesia scioglie il nodi del divenire, libera la donna oppressa da millenni e le ridona la dovuta dignità, perché  la donna non è un vuoto da colmare, ma un universo capace di farsi multiverso, per mezzo della poesia e dell'erranza.
Come sabbia di fiume in movimento, che erode e arricchisce, genera le idee e desta come un tintinnio di campana sorda. Lontano il verso non va, ma ci conduce il lettore: lo fa viaggiare oltre i noti confini. Annamaria Barreca trionfa in questo libro, come donna e come poetessa, perché accenna il suo dolore, lo dona, senza farlo diventare urlo, tramutandolo in carezza per l'anima.
" Armonia eravamo... Si confuse anche il tempo."
Annamaria Barreca, in questo libro, sa aspettare l'attimo, in cui si compiere la profezia del suo canto magistrale e luminoso. In questa attesa scompare il tempo e resta l'amore infinito, "roccia granitica" a cui aggrapparsi, ma senza veemenza.
"Un ombrello pieno di pioggia" è un canto d'amore, capace di risuonare a lungo nella testa del lettore. Oltre, va oltre, ben al di là della paura che blocca: è un canto che dura, una musica che investe il cuore. Il verso non poggia su strutture preconfezionate, ma vola su un pentagramma costruito tra gli spazi dell'anima: ogni parola è nota che conduce sì nell'abisso, ma che sa trarre fuori chi legge dal limbo della paura. 
C'è libertà in queste poesie: conoscono la direzione del dove sia opportuno stanziare: esse vanno al di là del pregiudizio e scardinano la miopia della modernità fasulla; lasciano il tempo di respirare, non corrono verso una meta prefissata, ma consentono di trovare il sentiero che conduce a se stessi, il quale è imprevedibile e nuovo ogni giorno. 

domenica 23 dicembre 2018

Racconti africani e di resistenza


Vite piegate dal vento

di Fausta Ivaldi



Esiste il dolore  profondo, quello che è in grado di radicarsi nel DNA delle donne violate, offese, rese schiave dagli uomini e a volte dalla educazione ricevuta, al punto da trasmettersi da una generazione all'altra, anche sotto forma di pregiudizio, il quale, come autodifesa, spinge molte donne, giustamente, a considerare il genere maschile come una minaccia. In questa dimensione di lotta tra i sessi, ovviamente, si perde la bellezza della vita, la quale è plurale e mai singolare, è eterogenea vitalità e non mefitica omogeneità.
Fausta Ivaldi, in questo libro, ce lo ricorda, perché, nonostante le violenze subite e osservate, in anni di militanza sul fronte dei diritti umani, ha conosciuto anche uomini speciali, che hanno saputo dare il giusto peso al ruolo delle donne. Siamo di fronte a una storia (tratta da differenti vicende) declinata su più livelli, tra silenzi e indifferenza. Il dolore cieco e furioso, come un elefante ferito, schiaccia ogni cosa, soprattutto la dignità e la gioia e rischia di inaridire l'animo. 
Leggendo questo libro si constata che la società educa le donne ad abbassare la testa, davanti ai mariti, ai padri o agli amanti, magari anche davanti ai datori di lavoro, e anche di fronte ad altre donne, quelle che remano contro se stesse per acclarare e rinforzare la dominanza del macho. Questi soggetti sono coloro che credono che le donne siano soprammobili o giochi da usare e abusare, da sfruttare come schiave, sexy lady o semplici incubatrici, costoro sono coloro che odiano se stessi.
Esiste il dolore frutto di questo disordine. Fausta ha acquisito il diritto di essere arrabbiata, e anche di usare la parolaccia, perché la parola non basta: per descrivere un uomo violento, occorre una grande parola, una parolaccia, a punto. Fausta ha il dovere di raccontare questo dolore, ha conquistato sul campo il diritto di condividerlo, in modo che di notte, esso, non impedisca il sonno a una sola donna, a colei a cui è stato inferto, ma vada ad abitare la coscienza di molti, per evitare che si diffonda sotto forma di assassinio e violenza, per impedire che le persone violentate, le donne offese, non abbiano nemmeno la voce per urlare e dire basta.

Leggere questo libro può salvare la vita...

sabato 17 novembre 2018

Un Nuovo Possibile "Geofilosofia del mare. Fra Oceano e Mediterraneo"






Nel tempo della chiusura, dei muri, delle barriere, dei confini, delle occludenti parole prive di idee, c'è ancora qualcuno che pensa e apre, generando possibilità. Il vero intento del filosofo deve essere quello di favorire il dialogo e il confronto, schiudendo sentieri nel bosco e sperimentando rotte che conducano all'altro. La filosofa Francesca Saffioti, anch'ella postuma, come tutti i pensatori profondi, giacché riescono a guardare al di là de proprio tempo, ha dato un contributo certamente rilevante per tentare di scardinare la miseria causata dalla paura e dalla diffidenza.
Un continuo navigare si è rivelata la sua breve vita, in acque difficili, sorretta dalla parola dei "Mediterranei", quelle donne e quegli uomini che hanno voluto e saputo immergersi nell'arroganza degli induttivisti senza per questo restarne offesi o plagiati o soffocati. Un delirio contemporaneo che Francesca Saffioti, col suo rigore etico e il suo studio profondo, ha sempre combattuto, sin dai tempi dell'università. Non ci sono schemi che possano irretire il pensiero di chi sa navigare e Saffioti lo sa fare, grazie alla parola e alla filosofia. Una studiosa che ci mancherà e di cui sentiremo ancora la voce, determinata e delicata, leggendo le pagine del suo libro:

Geofilosofia del mare. Fra Oceano e Mediterraneo,

 un'opera che merita di essere approfondita, giacché si inserisce in un filone di investigazione filosofica che ha ancora tanto da dire a chi si ostina a chiudere la porta della propria casa al "veniente". Questo post vuole essere solo un piccolissimo contributo per ricordare il lavoro di una studiosa del "pensiero meridiano", una filosofa del veniente, la quale, col suo esempio, sarà una bussola per tutti noi. Grazie Francesca Saffioti. 

domenica 8 luglio 2018

Il ritorno dello Jedi in Calabria




Sin da ragazzo, amo “Guerre Stellari”, la dicotomia tra Forza e Lato oscuro, allora mi affascinava, oggi mi interroga. Fino a qualche tempo fa, pensavo dipendesse semplicemente dalle mie passioni per scienza e fantascienza, per il futuro e le “cose ultime”, le quali mi hanno spinto a respingere le certezze preconfezionate, per inoltrarmi sulla via del possibile, del tentativo. Tale predilezione, mi dicevo, forse è nata dall’incontro con gli eroi di Omero, l’unica traccia positiva rimasta, oltre alla matematica e alle scienze, di tre anni di scuola media da incubo; forse è figlia dei cunti con protagonisti Fioravanti e Rizieri, i Paladini di Francia e Genoveffa di Brabante, che mio nonno mi raccontava. Oggi posso affermare che quelle che consideravo cause erano invece prodotti della stessa matrice. La passione per la saga di Guerre Stellari - e non mi riferisco solo ai film, ma anche ai libri e ai fumetti che riuscivo a trovare con grande fatica in un’infanzia senza internet, i quali mi hanno suggerito anche Isac Asimov e altri percorsi di “resistenza” - lo scontro tra Forza e Lato oscuro, sono figli di un moto interiore, recondito, di cui prendo coscienza solo oggi, giacché mi sento costretto in un sistema sociale privo di dialogo e figliastro della barbarie, che, periodicamente, ritorna e, come erbaccia, invade i campi di lavanda e ne ottunde il profumo. 

Irretito in una società, sempre più spesso, oppressa dalla mancanza totale di metodo o di qualsivoglia struttura benigna, sento il peso di vivere tra gente sballottata tra la paura e la rassegnazione: i pellegrini d’oriente, come insegna Hermann Hesse, hanno abbandonato il sogno e con esso se stessi. Don Quijote de la Mancha si è arreso. Forse, diventa sempre più realistica la profezia di Saramago: “il Governo aveva [...] optato per la liquefazione fisica in massa, ci fu chi s’infilò sotto i letti, alcuni, per la paura, non si mossero, certuni forse avevano pensato che era meglio così, se la salute è poca tanto vale non averne, e se c’è da morire, meglio farlo alla svelta.” (Cecità pag. 79).

Questo è l’atteggiamento di chi ha smesso di crederci, non in un dio, questo genere di fede è morta da anni, ma in se stessi. In Calabria, terra di orpelli e foreste; luogo di nuance e meretrici; meta di falchi e parole inutili; giardino di limoni e acquiescenza; patria dei senza parola e dei senza orecchie, in Calabria si generano i canti della rassegnazione e nella notte non vola nessuna nottola, ma solo sciami di locuste, che devastano i campi di liquirizia e grano. Qui domina il lato oscuro, i Jedi sono in via d’estinzione, nessuno sembra ricordare che con la forza della mente si può cavare un caccia stellare dalla melma della palude nella quale si è infilato, in pochi comprendono quanto sia importante la letteratura, la musica, il folle amore per la poesia e la ricerca, la logica della matematica e la passione per l’astronomia, perché Jabba de Hutt domina la scena. Ai suoi piedi si aggirano bestie ripugnanti e primati famelici.

La saga di George Lucas parla della mia Calabria, di ’ndrangheta, parla di forze che lottano quotidianamente l’una contro l'altra: forze disfattiste, animate dalla volontà di potenza e da falsi valori, i quali intrappolano l'uomo cieco e malato, incapace di un pensiero costruttivo, il cui DNA è intriso di brago, ma ci sono anche forze che resistono e sentono l’arcano e il vero, che viene da lontano, dalla parola viva e segnanteI non Jedi scappano da questa terra e lasciano spazio a giovani sopraffatti dal lato oscuro, figli di mafiosi e loro accoliti, ’ndranghetisti solo per posa, i quali pretendono di dominarti con uno sguardo, sputandoti in faccia il fumo delle sigarette, che quotidianamente insozzano il loro cervello e lacerano il loro cuore. Costoro frequentano, senza saper leggere e scrivere, senza aver mai fatto incontrare al loro cuore asfissiato una sola parola poetica o una sola nota di sole, le università più prestigiose, quelle a cui solo i danarosi possono accedere. I potenziali Jedi scappano, scappano perché qui non è rimasto più nulla, se non il deserto. La desertificazione è figlia della ’ndrangheta. Questo non è un luogo comune, perché è il mafioso che ha distrutto questa terra... ma noi? in che modo ci opponiamo? Dov’è la spada laser?

La luce è spenta e non la può riaccendere la falsa letteratura che parla di ’ndrangheta e si arricchisce con l’antimafia. La mafia è delinquenza, non fenomeno di costume; essa è il lato oscuro che la Letteratura può sconfiggere, solo se ritorna ad essere Letteratura e non cronaca. Occorre una operazione psicanalitica, occorre raccontare sogni, associare le idee, leggere i lapsus e scardinare la noia, occorre attraversare il fantasma, senza metterlo sul piedistallo, rendendolo innocuo, malfermo. Occorre stancare il fantasma, col sorriso, sottraendogli la forza.