rotte mediterranee... nel mare delle differenze... per uscire dal labirinto
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lunedì 7 aprile 2025
domenica 6 aprile 2025
UCCIDERE LA MADRE CHE DICE Sì
Quasi una vita, per imparare ad accettare un NO
"Una delle molle della volontà di potenza e di potersi vendicare un giorno di una causa di nostre sofferenze per esempio delle donne a causa di una donna, degli uomini a causa di un'infanzia o adolescenza maltrattate. Così si può spiegare la carriera di un grande artista o rivoluzionario. I nostri nemici si riducono sempre a quei due o tre tipi che ci hanno fatto soffrire nella adolescenza e nella giovinezza. Ma soprattutto è da considerare particolarmente la donna. Dico, sembra che ci si possa vendicare un giorno. Ma la lotta sarà così dura che si arriva al termine sgombri di rancori. E chi ne serba è un mediocre." Corrado Alvaro. Quasi una vita p. 88
Gli uomini che uccidono le donne o le picchiano stanno semplicemente uccidendo e picchiando la propria madre, quella donna che non li ha saputi accompagnare nella crescita e renderli autonomi e liberi, quella donna che non ha mai detto loro "NO". Un no definitivo e senza possibilità alcuna che diventi sì.
Nella nostra epoca è canone educativo il soddisfacimento del desiderio dei figli, "ad ogni costo"... "costi quel che costi"...
I risultati di una infanzia costellata di Sì, esaltano la Volontà di potenza, di cui parla Corrado Alvaro nel passo di Quasi una vita su citato, a questo si può unire il rampantismo epocale, che spinge a prendere tutto ciò che si desidera, senza rispettare i tempi della "maturazione" degli eventi, a cui ci aveva educati il cristianesimo.
Aspettare la maturazione non significa rassegnarsi, piuttosto implica la capacità contadina di preparare il terreno per accogliere il seme, il quale ha necessità dei suoi tempi per germogliare. Il NO alla fretta e alla violenza lo devono dire le DONNE/MADRI, per evitare di far insorgere nel figlio il desiderio di uccidere chi dice loro un NO che non sono abituati a contemplare.
La madre che piange per il figlio assassino finito in carcere, non piange per la vittima ma perché anch'ella, inquanto madre, si trova davanti al primo NO imposto al figlio da altri, da coloro che lo hanno rinchiuso e privato, giustamente, della libertà che non ha saputo accogliere e meritare.
Accudire i figli e gli alunni non significa spianare la loro strada, ma sostenerli mentre cadono nel TENTATIVO di spianarsela da soli.
domenica 30 marzo 2025
Da Aristotele ai cartoni animati giapponesi.
La violenza come stile di vita...
In Cattiva maestra televisione[i]
Karl Popper sostiene la necessità di istituire un comitato scientifico in grado
di vigilare sui programmi televisivi da trasmettere, onde evitare che la
violenza divenga tanto comune da non destare più alcun imbarazzo sia nel
guardarla sia nel praticarla, facendosi abitudine. Il saggio in questione
risale al secolo scorso, quando è già ampiamente dimostrato che i programmi
televisivi possano interferire sull’educazione delle nuove generazioni,
osservando per di più che il filosofo viennese non ebbe modo di conoscere una
televisione recipiente di reality e talent show, le oscenità del nuovo
millennio.
Giacché gli effetti di un sistema educativo possono essere testati solo quando gli educandi diventano educatori, ci chiediamo quale ruolo hanno avuto i programmi televisivi, che dagli anni Cinquanta del xx secolo hanno accompagnato i pomeriggi e le sere dei ragazzi occidentali, sulle coscienze individuali e sul cambiamento di usi e costumi.
Prima che il televisore divenisse
un elettrodomestico come il frigorifero e la cucina elettrica, c’era la radio,
uno strumento che imitava la voce narrante dei nonni. Attraverso questo
congegno era possibile perpetrare la tradizione del racconto orale e dell’educazione
all’ascolto, sia mantenendo le forme pedagogiche tradizionali sia innovando gli
strumenti necessari per la loro affermazione. La garanzia di una evoluzione
senza cancellazione è tutelata dall’invenzione di Guglielmo Marconi. Non vi è
dubbio che la radio abbia mutato il modo di comunicare e di raccogliere
informazioni sull’attualità e che essa abbia favorito lo scambio sempre più
proficuo tra le varie parti del pianeta, diffondendo cultura e conoscenza.
I bambini nati e cresciuti
durante gli ultimi decenni del xx
secolo hanno avuto un’infanzia differente da quella dei loro padri e nonni. La
rottura violenta con le tradizioni è stata determinata sì dal cambiamento del
sistema economico (dal momento che la frenesia del rampantismo degli anni
Ottanta e Novanta ha deteriorato i rapporti tra generazioni: gli anziani, non
più produttivi, non sono una risorsa, ma un peso, sia economico sia sociale),
ma anche da una massificazione culturale, un impoverimento delle conoscenze,
divenute sempre più superficiali. Quei nonni che sono cresciuti ascoltando i
cantastorie e i cuntisti o leggendo libri e sorbendo opere liriche, adesso non
possono più essere utili. I loro racconti sulla guerra sono noiosi e
pleonastici: in tv ci sono programmi più avvincenti (che possono intrattenere i
bambini mentre i genitori sono intenti ad aumentare il patrimonio di famiglia
lavorando dalla mattina alla sera) e l’irrealtà che li contraddistingue non
mette in campo, per esempio, l’impotenza dei soldati impegnati in un conflitto.
Al contrario di quanto faceva la radio, la quale raccontava la realtà[iii],
in tv le guerre cominciano ad essere descritte come eventi straordinariamente
eccitanti e positivi. Basterebbero però poche frasi di un grande scrittore per
far riflettere:
Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. Come me lo potevo immaginare io ‘sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in guerra, tutto quel che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini?[iv]
Tornando un po’ in dietro, i bambini che si riunivano in piazza davanti a un lenzuolo dipinto ad ascoltare i cantastorie, sentivano la forza della parola pervadergli l’animo. Anche loro ascoltavano e guardavano scene di violenza, ma nessun atto brutale era fine a se stesso. Se pensiamo alle saghe eroiche dei Paladini di Francia, ci possiamo rendere facilmente conto che i valori che esse trasmettevano erano quelli dell’amicizia, dell’amore fedele, che dura tutta la vita, anche a costo di enormi sacrifici e rinunce, e del rispetto delle regole. I traditori erano disprezzati da tutti: come si può ammirare Gano di Magonza, il quale il 15 Agosto del 776 fa trucidare, per livore, la retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle? Come si può non disprezzare Golo, l’ignobile ministro di Sigfrido, marito della bellissima e pia Genoveffa di Brabante[v], il quale inganna il proprio re, nel tentativo non riuscito di giacere con la regina?
Esempi che i giovani vivevano nei
racconti dei nonni o nelle letture per ragazzi. Tutti volevano essere come
Fioravante[vi],
sì ribelle, ma onesto e valoroso, pronto alla morte per salvare l’onore di una
donzella o per sostenere una giusta causa.
La maggior parte dei giovani di
quella generazione avrebbero voluto incarnare le virtù di questi eroi,
perfettamente in linea con l’eudemonia[vii]
di cui parla Aristotele nell’Etica Nicomachea.
Se il bene per il singolo individuo e per la città sono la stessa cosa, conseguire e mantenere quello della città è chiaramente cosa più grande e più vicina al fine, poiché tale bene è, sì, amabile relativamente al singolo individuo, ma anche più bello e più divino in relazione ad un popolo e a delle città. E dunque la nostra ricerca, che è una ricerca politica, è volta verso tali obiettivi[viii].
Anche i pusillanimi trovavano forza in quei racconti, perché, come sostiene Aristotele, nessuno nasce coraggioso, ma chiunque può diventarlo. Più gesti coraggiosi si compiono più viene naturale continuare a compierne. Ciò, ovviamente, vale anche per i vizi: l’abitudine può rendere l’uomo migliore o peggiore, dipende da quale abitudine stiamo assumendo.
Bisogna che l’allevamento e le occupazioni dei giovani siano regolati da leggi, giacché non saranno penosi se saranno divenuti abituali. Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un allevamento ed una educazione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li mettano in pratica e che vi si siano abituati[ix].
Quali consuetudini hanno assunto i ragazzi teledipendenti? Nelle narrazioni orali, i nostri antenati trovavano l’energia per credere in una possibilità. I gesti violenti, in quei racconti, sono l’ultima ratio e non l’unica forma possibile per realizzare qualcosa.
La radio ha contribuito, pure
dopo la nascita della tv, a diffondere parole ed esempi, con la lettura dei
classici e la propagazione della musica d’autore, compresa l’opera lirica. La
tv, invece, passata la sua prima fase pedagogica[x]
diviene mezzo pericoloso:
La televisione produce violenza e la porta in case dove altrimenti violenza non ci sarebbe[xi].
La violenza è divenuta oggi uno stile di vita, tanto che possiamo parlare di un vero e proprio culto della violenza: l’esaltazione della brutalità come mezzo d’azione per conseguire ogni obiettivo. I mezzi di comunicazione di massa sono additati sempre più spesso come i principali promotori di questa cultura sociale, a causa dell’estetizzazione della violenza: “l’arte del sottomettere l’altro” è “bella” da vedere, provoca godimento, gratifica, consente di sfogare le proprie frustrazioni. Anche lo sport è divenuto battaglia e l’avversario un nemico da annientare. Questo atteggiamento potrebbe scandalizzarci, ma non è pensabile ignorarlo. Va precisato che le scene violente non sono una prerogativa della tv: anche l’opera lirica[xii] riserva scene brutali[xiii], così come la letteratura e i cartelloni dei cantastorie, basta osservare i due di seguito riportati. Perché accettiamo questa violenza e non quella che troviamo nei cartoni animati? Perché le due forme dovrebbero essere eticamente differenti?
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Cartelloni realizzati da
Vincenzo Astuto - 1964[xiv]
Lasciamo
aperta questa domanda, sperando che alla fine del presente scritto la risposta
giunga da sola. L’importanza delle esperienze vissute durante l’infanzia, per
lo sviluppo della nostra personalità e il conseguimento di un equilibrio, pare
essere un elemento acquisito dalla scienza psicologica. Muovendo da tale
certezza, riportiamo un passo del monologo di Aljoša Karamazov nel Discorso presso la pietra a conclusione
del romanzo di Dostoevskij:
Sappiate che non vi è nulla di più
sublime, di più forte, di più salutare e di più utile per tutta la vita, di un
buon ricordo e soprattutto di un ricordo dell’infanzia, della casa paterna. Vi
parlano molto della vostra educazione, ma qualche meraviglioso, sacro ricordo
che avrete conservato nella vostra infanzia, potrà essere per voi la migliore
delle educazioni. Se un uomo porta con sé molti di questi ricordi nella vita,
egli sarà al sicuro fino alla fine dei suoi giorni[xv].
Che
cosa ricorderanno i nostri ragazzi? Abbiamo una responsabilità altissima: la
loro salvezza dipende da quello che riusciremo a trasmettere loro, in modo che
abbiano memorie, alle quali fare riferimento, nei momenti in cui la vita li
porrà di fronte a una scelta etica. Molti di noi rammentano con più vivezza i
racconti mitici e le saghe narrate dai nonni anziché molte delle lezioni
magistrali udite a scuola. È possibile anche che alcuni maestri abbiano
lasciato in noi dei ricordi, ma la presenza di essi nella nostra mente sarà
direttamente proporzionale alla passione usata nel momento del racconto. In
quest’ottica anche la narrazione di gesti violenti avrebbe una sua
significanza, che non potrebbe in alcun caso essere fraintesa.
Generazioni
di ragazzi sono cresciuti ascoltando la storia truculenta di Cappuccetto Rosso:
un lupo adesca una bambina nel bosco, la inganna, ne carpisce la fiducia, la
divora e poi se la dorme soddisfatto. Arriva il cacciatore, uccide il lupo, gli
taglia la pancia e da essa vengono fuori nonna e nipotina. Una scena che
avrebbe potuto ispirare le vicende di Grattachecca & Fighetto[xvi], i
protagonisti dei cartoni animati che appassionano Bart e Lisa Simpson. Qual è
la differenza tra la violenza in Cappuccetto Rosso e quella vista in tv da Bart
e Lisa o da tutti i nostri ragazzi cresciuti a pane e tv? Nel primo caso c’è il
medio della parola, colui che racconta è un adulto, il quale sottolinea la
ferocia del lupo e protegge allo stesso tempo tra le braccia il bambino che
ascolta. Rassicurandolo gli insegna che nel mondo esiste il male, ci sono i
furbi e anche i malvagi. Nello sguardo dell’adulto, il bambino può scorgere la
riprovazione per il gesto immondo del lupo e quindi comprendere bene che
quell’azione è eticamente da evitare (ovviamente dipende da chi racconta e per
quale motivo). La televisione non è in grado di fungere da medio, non può
interrompersi nel caso in cui i bambini volessero che ciò avvenisse: la tv
fornisce overdose continue di scene brutali alle quali nessun bambino
può opporsi da solo.
Il
ricordo diviene fondante per la formulazione delle idee e per l’ampliamento
della fantasia, doti necessarie in ogni professione, soprattutto in politica:
un amministratore senza fantasia è privo di mezzi per trarre fuori dai guai una
nazione. Ogni guerra, potremmo azzardare, è il frutto della mancanza di
inventiva. Lo scontro violento dimostra che non si è stati sufficientemente
creativi per trovare una soluzione a un problema. Tutti i programmi televisivi
che utilizzano la violenza ed il sesso per fare odience[xvii] sono stati montati da
gente priva di fantasia. I racconti dei nonni erano sì ricchi di violenza, ma
la collocazione di essa nel racconto aveva la funzione di dimostrare che la
brutalità era spregevole e inutile, quindi da evitare. Anche Frankenstein cerca di sottrarsi
all’aggressività: il mostro aspira alla comprensione e all’ascolto ed è in
grado, qualora se ne presenti la possibilità, di tenere in mano un fiore e di
sperare che il suo creatore gli dia una compagna, ché lo strappi alla
solitudine. Il creatore, però, si rende conto di avere una responsabilità verso
i posteri:
Avevo il diritto, per un interesse
personale, di infliggere una simile condanna alle generazioni future? […]
Rabbrividii al pensiero che le età future avrebbero potuto maledirmi come la
loro rovina, come colui che, nel suo egoismo, non aveva esitato ad acquistare
la propria pace a prezzo, forse, dell’esistenza dell’intera razza umana[xviii].
Il
mostro, il demone, come lo chiama la Shelley, non viene assecondato, ma
fermato. Egli si perderà tra i ghiacci dell’estremo Nord, ciò a dire che è solo
“congelato” e che potrebbe riaversi in qualunque momento, ritornando a
reclamare il suo spazio. E noi? siamo consapevoli della responsabilità che
abbiamo verso le future generazioni, quando lasciamo che sia la televisione a
educare al posto nostro? Col disinteresse potremmo risvegliare i tanti mostri
creati da Frankenstein che abbiamo creato, con conseguenze imprevedibili.
I
ragazzi pre-televisivi sognavano di essere come Orlando, non certo come Gano.
L’eroe era sempre il buono, nei racconti orali dei nonni. Non c’era nelle
pagine di Andrea da Barberino[xix] un eroe buono e un eroe
cattivo: c’era l’eroe e c’era l’antieroe. Ognuno aveva il suo ruolo: le
certezze dei giovani lettori o ascoltatori erano garantite. Non ci può essere
ambiguità in un processo educativo. Certamente bisogna far comprendere ai ragazzi
che ci possono essere errori di valutazione, ma permane la necessità di dare
loro dei punti di riferimento, che gli consentano di impostare le loro scelte
di vita. Solo insegnanti motivati potranno però riuscire in questo intento.
Indifferenti a tutto, privi di
passioni profonde, non sono soltanto molti genitori. Per esempio, nelle scuole
d’ogni ordine e grado insegnanti così ce ne sono a legioni. E questo è un dato
piuttosto disperante, perché quello dell’insegnante è un mestiere che offre
molti spazi per le “rivelazioni” – e questo non ha nulla a che fare con la
“missione”, ma molto con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che
hanno voglia di esistere davvero e lo dicono forte tutti i giorni[xx].
Se noi
non saremo in grado di rispondere a questa esigenza, i giovani si cercheranno
altri maestri, tra questi la televisione. Il bisogno dei ragazzi, manifestato
soprattutto durante l’adolescenza, di trovare delle “rocce” alle quali
aggrapparsi, va soddisfatto sempre, altrimenti si rischia di perdere la
“precedenza”: la tv e i giochi elettronici riempiono un vuoto, che spetta alle
parole dei “padri”, siano essi maestri, insegnanti o adulti in genere.
La tv
delle origini, in Italia, era “fatta” da persone che conoscevano il valore
della trasmissione dei saperi in generale e della storia in particolare. Non è
possibile in questa sede analizzare tutti i programmi trasmessi dalla tv di
stato italiana, ma si porteranno alcuni esempi, attraverso i quali si tenterà
di dimostrare che anche la tv può essere strumento pedagogico, se verrà usata
tenendo in conto che non deve essere solo la violenza a destare la nostra
attenzione, ma anche i piccoli gesti che, quotidianamente e con molta
leggerezza, ci allontanano da un comportamento etico. Non raccogliere gli
escrementi del proprio cane o buttare una carta dal finestrino della macchina o
una cicca di sigaretta sulla spiaggia sono gesti apparentemente innocui, ma che
nascondono un’assuefazione al mancato rispetto delle regole del vivere comune.
La violenza è cresciuta e il
progresso tecnologico dei mezzi di offesa provoca un delirio di onnipotenza. Ma
la causa profonda è un’altra ed è paradossale. In una società in cui “l’etica è
disfatta”, gli unici comportamenti che consideriamo gravemente illeciti sono
gli atti di violenza[xxi].
Molti
bambini degli anni Settanta hanno appreso un atteggiamento ecologista guardando
in tv i Barbapapà[xxii],
attraverso la semplicità di un disegno animato hanno compreso la necessità di
non inquinare e di amare gli animali, tutti. Nessuna violenza in quelle
immagini, che condannavano il gesto del furbetto di turno che scaricava
immondizia vicino a un lago. Barbapapà,
tutto rosa, interveniva e faceva vergognare lo sporcaccione, il quale, rosso in
viso e con lo sguardo basso, provvedeva a riparare il danno.
Alla
fine degli anni Sessanta la tv italiana trasmetteva programmi come La
freccia nera, uno
sceneggiato del 1968, diretto dal regista Anton Giulio Majano e liberamente
tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson. Gli episodi furono
sette, in onda sul primo canale della rai
dal 22 dicembre 1968 al 2 febbraio 1969. Un esempio esteticamente ben riuscito
utilizzato per spiegare ai ragazzi che, lottando onestamente, arriva sia il
riconoscimento sia la giustizia. Come dimenticare Rintintin[xxiii], il pastore tedesco che
in Italia ottenne un notevole successo negli anni Sessanta, quando la rai ne acquistò i diritti per
trasmetterlo sull’unica rete dell’epoca. Altri sceneggiati tratti da romanzi di
successo furono Tarzan e Sandokan, che andarono in onda tra gli
anni Settanta e Ottanta. Eroi positivi, pronti al sacrificio per aiutare il
prossimo, in perfetta linea con l’etica aristotelica: la mia felicità dipende
dalla felicità degli altri. Quel prossimo che, kantianamente, deve essere
sempre il fine del nostro agire e mai un mezzo.
Gli
anni Ottanta, nella televisione italiana, si aprono con l’invasione dei cartoni
animati giapponesi, i quali, è vero, a volte erano violenti, ma non più delle
battaglie descritte nelle vicende dei paladini di Francia o dello scontro
cruento tra Ettore e Achille. Riteniamo che questi cartoni conservassero
l’eudemonia aristotelica: sin dalla sigla d’inizio era chiaro il messaggio che
intendevano lanciare:
Uno per tre, e tre per uno perché,
insieme noi usciamo sempre dai guai, e difendiamo la terra, dall'ombra della
guerra, il nostro cuore batterà,
per la libertà. Intrighi e loschi piani dei mostri disumani, il nostro raggio
spazzerà nell'immensità. Daitarn, Daitarn[xxiv].
Una
lotta da condurre “insieme”, tutti uniti contro la guerra e per la libertà.
Ancora una volta il messaggio è quello del bene comune come presupposto della
propria felicità. Tuttavia, guardando le immagini sotto riportate, in cui Daitarn
3 ha il pugno teso, per colpire l’avversario, si nota che la violenza è una
via apparentemente irrinunciabile, così come lo era nelle battaglie medievali,
per realizzare il bene.
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Rinaldo e Mambriano si sferravano
colpi disperati. Il paladino, a un certo punto, calò un tal fendente che mandò
a rotolare il nemico sul suolo e stava per finirlo allorquando un leone si
slanciò su di lui che dovette pensare a difendersi dal nuovo pericolo. Alla
fine anche il leone cadde con la testa spaccata, ma Mambriano, benché ferito,
s’era riavuto e riappiccò la battaglia[xxv].
Anche
in queste righe tratte dai racconti dei Reali di Francia, così come nelle
immagini sopra riportate, la violenza è protagonista. In entrambi i casi è
considerata uno strumento necessario per far trionfare la giustizia. Ovviamente
la brutalità non può essere la via per affermare le proprie ragioni, ma pare
che gli uomini non sappiano farne a meno, quindi i bambini vanno educati alla
responsabilità.
La
facilità con cui da sempre poniamo fine alla vita di una persona è
sconcertante: le guerre “intelligenti” a cui ci ha abituati la tv la dicono
lunga sulla nostra insensibilità, acuita dall’abitudine. I robot dei cartoon
degli anni Ottanta combattono ancora come dei cavalieri medievali: lottano
corpo a corpo e l’onore è una imprescindibile condizione di base di ogni loro
agire. Nei nuovi disegni animati che “riempiono” i pomeriggi dei bambini dei
nostri giorni, la violenza spesso è gratuita: la finzione ha appreso l’orrore
dalla realtà e l’ha trasformato in farsa. L’insensibilità innanzi alla morte ci
impedisce di comprendere fino in fondo quanto sostiene Don Chisciotte parlando delle armi da fuoco:
Benedetti quei fortunati secoli cui
mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al
cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica
invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un
braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper
né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i
forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggì, al bagliore
di fuoco prodotto dalla maledetta macchina) e recida e dia fine in un istante
ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi
secoli[xxvi].
I tempi cambiano, ma l’uomo pare essere sempre più accostumato alla morte violenta. Essa passa senza lasciare traccia, e chi resta si dimentica in fretta l’orrore, giacché oggi in tv tra un omicidio e l’altro siamo allietati dalla pubblicità di un gelato alla vaniglia o di un buon caffè, sorbito tra le nuvole di un paradiso in cui le nefandezze umane si ripetono tali e quali a quelle a cui assistiamo ogni giorno. Tanto che l’unica cosa auspicabile sarebbe di finire all’inferno. La violenza, un tempo, era fermata su dipinti, come monito, mettendo in mostra la sua immobile inutilità. Se guardiamo il quadro di Rubens, Le conseguenze della guerra, del 1638, esposto a Palazzo Pitti a Firenze, ci possiamo facilmente rendere conto quanto terribile fosse la percezione di quell’evento.
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Probabilmente Rubens aveva vissuto la guerra dei Trent’anni che dal 1618 fino al 1648 gettò l’Europa in una tragica condizione economica e sociale. La violenza è aborrita, ma nello stesso tempo esaltata, come condizione in cui l’uomo può evidenziare il suo valore, legato com’è, ancora dopo millenni, alla convinzione che la supremazia fisica sia un valore da perseguire.
Nella tv dei nostri giorni, siamo
passati dai cartoni animati che esaltano la violenza come mezzo a programmi che
elogiano la violenza come fine. La differenza è notevole, le conseguenze le
potremo constatare in un prossimo futuro. La strada potrebbe essere quella che
Aristotele ci indica nell’Etica Nicomachea: occorre educare i giovani al
bello, affinare la loro sensibilità, affinché trovino brutto guardare orrori
per divertimento, affinché trovino osceno ascoltare e dire turpitudini:
L’uomo per bene, che vive orientato al bello, ubbidisce al ragionamento, l’uomo malvagio, che desidera solo il piacere è punito con il dolore come una bestia da soma. […] La cosa migliore è che vi sia una corretta educazione pubblica; ma se queste cose vengono trascurate dal punto di vista pubblico, si riconoscerà che è a ciascun individuo che conviene aiutare i propri figli ed i propri amici a raggiungere la virtù[xxvii].
Non siamo in grado di sostenere se la violenza presente nei miti, nelle leggende e nei dipinti sia da preferire a quella dei cartoni animati giapponesi, né se la brutalità alla quale la tv di oggi ci ha reso avvezzi possa determinare una decadenza culturale, ma possiamo di certo essere concordi con lo stagirita nel ritenere che l’educazione al bello può ancora oggi essere una via verso l’equilibrio.
[i] Karl R. Popper, “Una patente per fare la tv” in Cattiva maestra televisione, a cura di Giancarlo Bosetti. Marsilio, Milano, 1996. pagg. 33-45.
[ii] Ivi 42.
[iii] Basti pensare al ruolo di Radio
Londra durante la Seconda guerra mondiale.
[iv]Louis Ferdinand Céline, Voyage au
bout de la nuit, tr. it. di Ernesto Ferrero: Viaggio al termine della
notte, (TEA, Milano, 2002), pag. 21.
[v] La leggenda di Genoveffa di Brabante fa la sua prima apparizione nella letteratura popolare nel secolo VIII. Una prima elaborazione della vicenda si deve al gesuita Ceresiers (1638), che attribuisce a Genoveffa il titolo di Santa, inaugurando la fortuna del soggetto, di cui presto si approprierà il teatro.
Cfr.: Genoveffa di Brabante. Dalla tradizione popolare a Erik Satie, a cura di Alfonso Cipolla, (Ed. SEB27, Torino 2004).
Francesco Idotta, “Il dialetto in
forma letteraria. Genoveffa di Brabante. Da Cerisiers a Reggio Calabria”, in La
Lingua dell’Altro. Il problema del dialetto nell’apprendimento scolastico. Uno
sguardo didattico filosofico, (Città del Sole Ed., Reggio Calabria, 2011).
[vi] Per la Storia di Fioravante
si veda la versione raccolta e trascritta nel libro: Francesco Idotta, La
saga di Fiorvanti, Città del Sole Edizioni, (Reggio Cal. 1999). La versione
originale della storia si può trovare nel sito internet:
http://www.classicitaliani.it/index004.htm (Marzo 2011). Confrontando questa
versione con quella riportata nella raccolta su citata si può notare la
trasformazione che la vicenda ha subito nel corso del tempo ed il suo
adattamento agli usi e ai costumi di Calabria, comprovando quanto fosse importante
la narrazione orale per l’educazione delle generazioni passate.
[vii] Ossia la condizione di felicità
considerata come fondamento dell’etica e come fine dell’esperienza umana. Solo
chi è utile agli altri può essere utile a se stesso. L’agire per il prossimo
disinteressatamente implica automaticamente il raggiungimento della propria
felicità.
[viii] Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. Claudio Mazzarelli, (Bompiani, Milano,
2001), (X, 9, 1179b 35 – 1180a 4) pag. 403.
[ix] Ibidem.
[x] Le trasmissioni televisive in
Italia iniziano il 3 gennaio 1954, a cura della RAI, in bianco e nero.
L’autoregolamentazione a quel tempo prevedeva la non accettazione di scene
turbanti la pace sociale ed incitanti all’odio di classe, il rispetto dei valori
familiari e religiosi, il pieno rispetto della “santità matrimoniale” e il
rifiuto delle scene erotiche. Per garantire il rispetto di queste norme, venne
istituito, un Comitato per la determinazione delle direttive di massima
culturali. Per ulteriori approfondimenti si veda: Monteleone
Franco, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo
di costume, società e politica, (Marsilio,
Milano, 2001).
[xi] Karl R. Popper, “Una patente per
fare la tv” in Cattiva maestra televisione, op. cit. pag. 40.
[xii] Fabrizio Dorsi, Rausa Giuseppe, Storia
dell’opera italiana (Mondadori, Milano, 2000).
[xiii] Il primo atto della Turandot di Giacomo Puccini si apre a Pechino, in un imprecisato
«tempo delle favole». Dall’alto delle mura, il Mandarino si appresta ad
annunciare alla folla che la principessa andrà sposa a chi, di sangue regale,
scioglierà i tre enigmi da lei proposti; ma il boia Pu-Tin-Pao è pronto a
decapitare quelli che falliscono, come lo sfortunato principe di Persia, che
salirà al patibolo al sorgere della luna. Tuttavia l’opera si concluderà
ponendo in evidenza che la perseveranza nel conseguire Amore sarà premiata.
[xiv] Per ulteriori notizie consultare il
sito internet: “Cuntastorie e Cantastorie” di Angelo Clemente: (2 Novembre
2011). http://www.irsap-agrigentum.it/Cuntastorie%20e%20Cantastorie.htm
[xv] Fëdor Michajlovič Dostoevskij, БРАТЬЯ КАМАЗОВЬІ, tr. it. Maria Rosaria
Fasanelli, I Fratelli Karamazov,
(Garzanti, Milano, 1992), pag. 1061.
[xvi] Grattachecca & Fichetto sono due
personaggi del cartone animato preferito di Bart e Lisa Simpson (Simpson
è una popolare sitcom animata creata dal fumettista statunitense Matt Groening
a fine degli anni Ottanta per la Fox Broadcasting Company). Le vicende di Itchy
& Scratchy, il nome originale di Grattachecca & Fichetto, rappresenta
una sarcastica parodia splatter sia di Tom & Jerry sia di Titti & Gatto
Silvestro. Sono un cartone nel cartone che mette in evidenza la violenza
gratuita a cui sono sottoposti i ragazzini di oggi.
[xvii]“Si offrono all’audience
livelli di produzione sempre peggiori e... l’audience li accetta, purché
ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, rappresentati dalla
violenza, dal sesso e dal sensazionalismo...spezie sempre più forti sul cibo
preparato, perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar
sopra anche a un sapore disgustoso”. In K.R. Popper, Cattiva maestra
televisione, op. cit.,
pagg. 34 e segg.
[xviii] Mary Shelley, Frankenstein or the modern
Prometheus, tr. it. Bruno Tasso, Frankenstein
ovvero il Prometeo moderno, (Fabbri ed., Milano, 1999), pag. 140.
[xix] Andrea di Jacopo da Barberino, è stato uno scrittore italiano vissuto tra il
1370 e il 1432 ca. È conosciuto soprattutto per essere stato l’autore de Il Guerrin Meschino. Traduttore delle canzoni di
gesta francesi, fu autore di altre opere fra cui I
Reali di Francia, Storie nerbonesi, Ugone di Alvernia, Storia
di Ajolfo del Barbicone e di altri valorosi cavalieri e Aspromonte.
[xx] Giuseppe Pontremoli, Elogio delle
azioni spregevoli, (L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004), pag 21.
[xxi] Paolo Rossi, Bambini, sogni, furori, (Feltrinelli, Milano, 2001), pag. 53.
[xxii] Un fumetto creato da Annette Tison e
Talus Taylor, pubblicato in Francia nel 1970; Barbapapà è il nome del
protagonista e per estensione di tutta la sua famiglia (Les barbapapas):
il nome del protagonista deriva dall’espressione francese Barbe à papa,
che significa “zucchero filato”. Dal fumetto nel 1974 è stata ricavata una
serie televisiva giapponese, uscita in Italia nel 1976.
[xxiii] Rin Tin Tin o Rintintin o più semplicemente Rinty è il
nome del pastore tedesco protagonista di numerose storie per ragazzi, tra cui
una serie televisiva. Le storie di Rin Tin Tin sono ispirate alle vicende di un
cane realmente esistito, con lo stesso nome: pare che fosse un pastore tedesco
trovato da un soldato statunitense di nome Lee Duncan in un canile bombardato
in Lorena, poco prima della fine della Prima guerra mondiale. Tornato a Los
Angeles, Lee addestrò Rin Tin Tin che fu casualmente notato dal produttore
cinematografico Darryl F. Zanuck, il quale ne fece un personaggio
cinematografico, un eroe positivo, ecologista ante litteram.
[xxiv] Daitarn 3 l’Invincibile uomo d’acciaio è una serie televisiva
giapponese di genere mecha, prodotta dalla Sunrise e creata da Yoshiyuki
Tomino, con il mecha design di Kunio Okawara e le musiche di Takeo
Watanabe e Yuji Matsuyama. La serie, composta da quaranta episodi, è stata
realizzata nel 1978, e trasmessa per la prima volta in Italia nel 1980.
A differenza
di molte serie di robot trasmesse nella stessa epoca, in Daitarn 3 sono
presenti citazioni da cinema, libri, fumetti e TV: nell’episodio trentasei, nel
quale il protagonista Haran Banjo è oggetto di tortura psicologica, uno dei
cattivi si chiama Phroid, è evidente il riferimento a Sigmund Freud. Un’altra
caratteristica della serie è che Daitarn è uno dei pochi robot dotati di
espressioni facciali. Per ulteriori approfondimenti si veda il sito internet:
http://www.encirobot.com/dait/dait-ind.asp.
(6 Nov. 2011).
[xxv] I
Paladini di Francia. Da Carlo Magno a Roncisvalle (Bietti, Milano, 1963),
pag. 121.
[xxvi] Miguel De Cervantes, El Ingenioso Hidalgo
Don Quijote de la Mancha, tr. it. Alfredo Giannini, Il fantastico idalgo Don Chisciotte della
Mancia, (BUR, Milano, 2005).
[xxvii] Aristotele, Etica Nicomachea, op. cit. (X, 9, 1180a 8 – 1180a 32), pagg. 402 -
405.