Sicilia,
da Messina a Trapani, un viaggio perpendicolare attraverso il quale la
prorompente dinamicità del Mediterraneo finisce per possedere ogni fibra
cerebrale. La luce del sole stringe le palpebre e allarga l’orizzonte.
Procedendo verso Ovest ci si ritrova su un confine temporale, il quale muta
incessantemente e conduce nella fissità del passato.
L’autostrada
è dritta come il vento che taglia i ponti, tra una galleria e l’altra. La
Messina-Palermo, in alcuni tratti, lascia intravvedere l’accaduto, fatto di
carretti e agrumeti. La dolcezza del ricordo, di tutto ciò che vuol dire
Sicilia, Sud. Non è mai un luogo comune: è una terra colta, Trinacria, pregna
di zagara sfacciata e di palmizi svettanti, una paralisi visiva, che accalappia
lo sguardo come la sfera di un negromante. La magia del sole cocente impedisce
di pensare che anche qui possa arrivare l’inverno.
La
macchina scorre sull’asfalto infuocato, la calura di agosto rende l’orizzonte
rarefatto, sullo sfondo Tindari, che si staglia sul mare, verso la spiaggia
dell’Armata Brancaleone di Monicelli.
Passaggi
e paesaggi, transiti terreni ma metafisici: vanno oltre ciò che i sensi
percepiscono, perché un viaggio in Sicilia trasporta là dove non si potrà mai
giungere con la fantasia.
La
prima sosta all’autogrill ti pone davanti vini alle mandorle, limoncelli e
maioliche di Caltagirone. Ti senti in un continente Altro, quando prendi tra le
mani i libri dei piccoli editori isolani, isolati… dalla storia di Giuliano, il
bandito, alla leggenda della baronessa di Carini. Sangue e schioppettate, temperamento
e coltellate. Sapere che l’impronta della baronessa è stata cancellata da un
guardiano del castello di Carini, perché stufo di essere disturbato dai
turisti, la dice lunga… follia mediterranea, arabitudine, ibericità, tutto
fuorché sogno… qui ogni cosa è reale, come nella Fenomenologia dello Spirito di
Hegel, salvo scoprire che quella assurda necessità, di cui ogni siciliano si
sente parte, è solo frutto della sua innata voglia di restare isolano.
Si
giunge a Palermo trovandosi davanti una montagna brulla che si getta nel
Mediterraneo con riluttanza, come se non volesse bagnarsi i piedi. Resta lì ad
attendere che arrivi l’onda e porti via l’obbrobrio delle ciminiere inquinanti,
l’unico monumento che la mafia possa concepire, anche se ha dovuto subirne un
altro: le orrende colonne sulla Palermo-Capaci in ricordo della strage delle stragi. Orrendo perché ricorda l’orrore
e tradisce il senso di quelle morti, causate anche dall’abusivismo edilizio,
che ha deturpato il capoluogo di un’isola selvaggia e brutale, rendendolo barbaro
e spietato: nessun uomo può vivere nella disarmonia, senza rimanere contaminato
dall’oscenità.
Superata
Palermo ecco la meraviglia del rosso siciliano, le montagne ferrose e
splendenti che assorbono sole come fossero pannelli solari. Scenari lunari, si
potrebbe dire, ma siccome non siamo mai stati sulla Luna ci limitiamo a dire, vedute
siciliane. Di alberi nemmeno l’ombra, solo qualche mandorlo e qua e là vigneti,
casolari… pietre e pietre e ci si rende conto che era necessario emigrare...
Solcare ogni giorno quei sassi taglienti, a piedi scalzi, per correre dal
barone a rotta di collo, per portare quattro erbacce a casa per cena… meglio
morire su un barcone diretto alla Merica. Che fine ha fatto la Conca d’oro?
Pare abbia lasciato il posto a villaggi turistici rosati, pare abbia ceduto il
passo alle forze centrifughe dei tour operator… alle furberie di un’illusione.
La meta è vicina, quei luoghi in cui la giostra estiva fa girar la testa. Si
sente nell’aria l’odore di sale, di cuscus, di dolci e pesci rilucenti.
Balata
di Baida, Custonaci, Castelluzzo, Macari ed ecco San Vito lo Capo, come una
visione. Sembra di essere in Africa settentrionale. Case basse col cortile
interno per difendersi dalle sferzate del sole, vie parallele per permettere
alla brezza marina di rinfrancare lo spirito e il corpo. Sotto la roccia
granitica che si erge sul mare basso la spiaggia delle conchiglie si insinua
nella mente, così come la sua sabbia tra le dita. Gusci bianchi e delicati,
eterei alla maniera della serenità. Un folto tappeto di alghe, e i cristalli
dell’acqua entrano tra le fibre del costume, ricordando che la verginità della
natura può rendere ogni uomo più uomo.
La
bellezza passa anche per la bocca, attraverso la sensuale fragranza della
sfoglia di un cannolo con ricotta e canditi; la fresca esuberanza di un gelato
al pistacchio o la travolgente voluttà di una cassata spudorata.
La
Valderice conquista con i suoi profumi di finocchio selvatico, i bassi uliveti
su terra rossa e la ghiaia chiara che abbaglia. La strada per Erice è una
poesia di sguardi, tornanti tra pinete odorose e poi il mare e la costa… un
passo al di là di ogni desiderio.
Nel
piccolo giardinetto di Maria Grammatico, la pasticcera della gioia, i cannoli e
le cassatine sanno di mito… e in bocca non assapori zucchero, ma vita, con le
sue straordinarie sorprese.
Verso
Marsala, alla volta delle saline, il vento sferza la distesa bianca, mentre la
calura di una domenica di fine agosto rende deserta la città di Garibaldi. Le
strade sono linee casuali in cui perdersi, per ritrovare il nesso attraverso la
musica di padre Jan Paul, che nella canonica ci intrattiene cantando in
francese, la lingua del Benin. Con la sua dolce determinazione africana, con la
sua fede rivoluzionaria ha riempito la chiesa… si mangia insieme, in questo
angolo di Mediterraneo, si gustano gli spaghetti con pomodoro e basilico
bagnati da un rosso d’Avola lussurioso.
Nella
punta estrema dell’Italia, dove i colori sono una ricchezza, dove la diversità
diviene parola di verità, il mondo si fa grande, si espande per fare posto alla
felicità di un incontro con l’Altro.