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sabato 30 agosto 2025

Garibaldi in Aspromonte 29 agosto 1862

 Mi repugna raccontar miserie”. Garibaldi, poeta sul confine.

di Francesco Idotta
 

Cippo Garibaldi, Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 29 Agosto 2025

 



Voglio cominciare questa mia breve conversazione facendo parlare lo scrittore e il poeta Giuseppe Garibaldi, premettendo che prima di dire qualsiasi cosa, su qualsivoglia personaggio storico, sarebbe il caso, ove possibile, e in questo caso per fortuna lo è, di ascoltare le sue parole.

Garibaldi ha scritto romanzi e poemi, tra questi un romanzo dedicato all’impresa dei Mille, un poema autobiografico e anche un libro di Memorie, da quest’ultimo è tratto il brano che vi leggerò, per introdurre il tema delle miserie e delle libertà, ma soprattutto del confine.

 “Dopo marcie disastrose, per sentieri quasi impraticabili - l'alba del 29 Agosto 1862 - ci trovò sull'altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati - Alcune patate mal mature, furono raccolte, e servirono d'alimento - prima crude - passato poi il primo orgasmo della fame - se ne mangiarono arrostite.

E qui devo far giustizia alle buone popolazioni montane di quella parte della Calabria - Esse non comparirono subito, per i disagiati sentieri, e le difficoltà di comunicazioni - ma nel pomeriggio, comparvero cotesti generosi abitanti - con abbondanti provviste - di frutta pane ed altro - L'imminente catastrofe però ci diede poco tempo per profittare di tanta benevolenza -

A Ponente, alla distanza d'alcune miglia - si cominciò a scoprire, verso le 3 p. m. la testa della colonna Pallavicini, destinata ad attaccarci - Ed io, considerando la posizione piana, ove avevamo riposato nella giornata - troppo debole, ed esposta ad esser accerchiata - ordinai un cambiamento di campo verso la montagna - e si giunse al limitare della bellissima foresta di pini, che corona l'Aspromonte - ove accampammo, colle spalle alla stessa, e la fronte verso i nostri assalitori -

E veramente: nel 60 fummo minacciati d'esser attaccati dall'esercito sardo - e vi volle molto amore del proprio paese - per non entrare in una guerra fratricida - Nel 62 però, l'esercito Italiano, perché più forte, e noi più deboli assai - ci votò all'esterminio - ed alacremente corse su di noi - come su briganti - e forse più volontieri. Intimazioni, non ve ne furono di sorta - Giunsero i nostri avversari - e ci caricarono, con una disinvoltura sorprendente - Tali, certamente erano gli ordini: si trattava d'esterminio - e siccome tra figli della stessa madre - potevasi temere titubanza - cotesti ordini, furono senza dubbio, di non dar tempo nemmeno alla riflessione - Giunto a lungo tiro di fucile, il corpo Pallavicini formò le sue catene - avanzò risolutamente su di noi, e cominciò il solito «fuoco avanzando» sistema adottato anche dai borbonici, e che ho già descritto difettoso -

Noi, non rispondemmo - Terribile fu per me quel momento! Gettato nell'alternativa di deporre le armi come pecore - o di bruttarmi di sangue fraterno! Tale scrupolo, non ebbero certamente i soldati della monarchia - o dirò meglio: i capi che comandavano quei soldati - ¿Che contassero sul mio orrore per la guerra civile? Anche ciò è probabile - e realmente, essi marciavano su di noi con una fiducia che lo facea supporre -

Io ordinai: non si facesse fuoco - e tale ordine fu ubbidito - meno da poca gioventù bollente - alla nostra destra, agli ordini di Menotti - che vedendosi caricati un po’ sfacciatamente, caricarono, e respinsero -

[…]

Anche Menotti fu ferito nello stesso tempo - Coll'ordine di non sparare - quasi tutta la gente nostra ritirossi nella foresta - rimanendo presso di me tutti i miei prodi ufficiali - fra cui i tre egregi chirurghi nostri - Ripari, Basile ed Albanese - alla cura gentile dei quali, io devo certamente la vita -

Mi repugna, raccontar miserie! - Ma tante furono, manifestate in quella circostanza - dai miei contemporanei - da nauseare anche i frequentatori di cloache! -

[…]

La monarchia Sabauda - avea ottenuto la gran preda - ed ottenuta come la volea - cioè: in uno stato - che il diavolo probabilmente - se la porterebbe via -

Si usarono veramente quelle civiltà banali - comuni, che si costumano anche per i grandi delinquenti, quando si conducono al patibolo - ma, per esempio - invece di lasciarmi in un ospedale di Reggio o di Messina - fui imbarcato a bordo d'una fregata - e condotto al Varignano – […]

Finalmente dopo tredici mesi - cicatrizzò la mia ferita del piede destro - e sino al 66 - condussi vita inerte ed inutile -

 Parlare di Garibaldi, oggi, sembra quasi anacronistico. Tuttavia, occorre farlo, proprio perché la memoria di quest’uomo, intellettuale, coraggioso interprete del suo tempo e, suo malgrado combattente, deve essere difesa.

Abbiamo inteso oggi avvicinarci a questo personaggio storico certi che se Hegel lo avesse conosciuto, lo avrebbe indicato come individuo cosmico storico, al pari di Napoleone.

 In pochi riescono, come Garibaldi, ad incarnare lo spirito del proprio tempo, riuscendo a diventare fautori e precursori di una nuova epoca… Forse solo Giuseppe Verdi ha saputo personificare lo spirito del suo tempo con la medesima energia creativa di Garibaldi, ma questa è un’altra storia…

Il titolo di questa conversazione è stato ispirata dal brano che vi ho letto, inserito nel quarto periodo, che va dal 1860 al 1870, nel capitolo primo, Titolato: “1862 campagna d’Aspromonte”, Dedicato alla vicenda accaduta in questo luogo il 29 agosto del 1862, esattamente 163 anni fa.

A quale miseria si riferisca Garibaldi, in parte lo chiarisce egli stesso nel testo che abbiamo letto, ma il vero cruccio di Peppino (come veniva chiamato dai suoi fidati amici) fu la miseria delle miopi visioni di uomini come Pallavicini (ben descritta da Tomasi di Lampedusa nel romanzo Il Gattopardo e da Luchino Visconti nell’omonimo film) Pallavicini incarna il fanfarone, il finto eroe, l’uomo senza scrupoli, il tronfio soldato esecutore, nella cui testa nessuna riflessione morale salta fuori prima di mettere in atto l’ordine ricevuto.

Le miserie alle quali Garibaldi si riferisce furono quelle degli uomini che invece di avere a cuore il bene della comunità, si sono limitati ad anteporre il proprio ego a qualsivoglia ideale. Uomini esclusivamente interessati a ottenere ricchezza e fama e solo per queste due meretrici hanno operato.

Garibaldi non fu mai un mercenario, sì, a volte un maschilista e insopportabile donnaiolo, un testardo e selvaggio, ma ognuno è figlio del proprio tempo, e noi non vogliamo giudicare l’uomo, piuttosto a cercar di comprendere il ruolo che il politico Garibaldi ha avuto nell’ottenimento di quella libertà realizzata il 1 gennaio del 1948 con la promulgazione della nostra Costituzione repubblicana e più nello specifico il ruolo dell’intellettuale, dell’eroe, padre di una visione, il cui unico intento è stato liberare l’uomo dalla schiavitù; col fine di rimuovere il confine della schiavitù del tiranno.

Per Garibaldi, lo vedremo, ogni tiranno è questo confine, giacché non opera con-fine libertario, ma con-fine autoritario; il suo fine non coincide col fine del popolo, ed il suo fine diventa il con-fine della libertà del popolo, sempre più stretto e opprimente.

È vero che per Aristotele, lo scrive nella Politica, la migliore forma di governo non è per partito preso la democrazia o la Repubblica, e che può esserlo anche la monarchia, ma sempre e solo se il monarca ha come unico interesse il benessere dei sudditi.

Non fu questo il caso dei Borboni, tanto meno, ahi noi, dei Savoia. Forse la pensava allo stesso modo Garibaldi, il quale da fervente repubblicano, al contrario dell’intransigente Mazzini, si piegò al compromesso monarchico; non abbiamo notizia di una sua frequentazione con Aristotele, ergo possiamo ritenere che la sua scelta sia stata dettata da realismo politico, semplicemente perché i tempi della Repubblica non erano maturi e l’unica via per uscire dalla miseria era liberare i popoli oppressi dell’Italia meridionale da Francesco II, il quale, più del padre Ferdinando II, oltre che tiranno, fu anche incompetente, e se non per volgare cupidigia tirannica, oppresse il popolo per ignavia e incapacità.

Torniamo però all’ideale… al Garibaldi scrittore e poeta, l’uomo che sente il peso e la responsabilità del suo mandato civile e politico. Anche se, prima di procedere con la lettura di alcuni passi dell’opera di Garibaldi, occorre chiarire che non è possibile trattare un qualsiasi segmento della storia come un’attuazione di cui si debba portare alla luce l’idea o principio operativo, perché Hegel, ci direbbe che solo dalla considerazione stessa della storia risulterà che tutto è avanzato secondo ragione, che essa è il corso razionale necessario dello Spirito del mondo. Hegel ci invita a procedere in modo storico-empirico.

Ecco che seguendo questo consiglio non dobbiamo assolutamente giudicare il passato con le categorie del presente.

Se volessimo giudicare l’operato è l’azione di Giuseppe Garibaldi partendo dalle categorie odierne, metteremmo in atto ciò che uno storico non deve mai fare, ossia operare ideologicamente un revisionismo.

Charles Taylor, sociologo e politologo oxoniano, nel suo libro Hegel e la società moderna sostiene: “se si vuole conoscere il sostanziale che è nella storia, bisogna portare con sé la coscienza della ragione [. ..] l’occhio del concetto, della ragione, che penetra la superficie ed energicamente si apre la via attraverso il molteplice e variopinto groviglio delle contingenze.”  Così facendo si può dimostrare che la storia stessa è la prova che la ragione governa il mondo.

Possiamo dunque affermare che l’azione di Garibaldi si situa in un contesto storico politico in cui il problema fondamentale è quello che sia Garibaldi sia Hegel sia gli uomini dell’Ottocento vogliono porre in risalto, ossia la mancanza assoluta di libertà. Ci dobbiamo chiedere noi, oggi, quale è stato il contributo di costoro nel processo realizzativo della libertà di cui noi adesso godiamo e di cui non ci rendiamo conto.

Passiamo al secondo punto del titolo di questo incontro, ancor prima di chiarire il senso dell’attribuzione a Garibaldi del titolo di poeta.

Quando parliamo di uomo che sta sul confine, ci riferiamo proprio a questo, ossia un uomo, in questo caso Garibaldi, che fa del confine il luogo nel quale permanere, nel quale stare, indipendentemente dal fatto che le scelte operative del generale Garibaldi siano state felici o infelici, condivisibili o non condivisibili.

Quello che noi oggi dobbiamo considerare è che la verità storica che emerge da questi eventi è la piena realizzazione degli ideali che caratterizzarono la spinta propulsiva che portò Garibaldi a essere quel temerario che è stato, ossia la visione di una Repubblica, di un’Italia repubblicana democratica, nata dal suffragio universale, dalla completa uguaglianza tra uomo e donna.

Riforme che ovviamente non potevano realizzarsi nell’epoca in cui Garibaldi visse, ma proprio per questo egli merita di essere commemorato e ricordato, giacché sua è la grandezza che caratterizza l’uomo politico e l’intellettuale, quindi lo scrittore e il poeta, ossia la capacità di vedere esattamente, come se fosse un legislatore, quello che può accadere, quello che accadrà.

Tutto ciò per cui Garibaldi lottò, consapevole che non avrebbe mai potuto vivere abbastanza per vederlo realizzato, si è compiuto dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1948, a quasi 100 anni dagli eventi che noi qui stiamo commemorando.

Garibaldi non vuole parlare delle miserie umane perché sa che in uno scritto ciò che deve emergere è l’elemento razionale, che ha determinato l’azione e non il contingente di cui parlano Hegel e Tylor; anche se il contingente determina l’azione e l’agire dell’individuo, tuttavia, non sempre questo contingente è razionale, ma lo spirito che sottende a tutto, esso sì è razionale.

Quale fu dunque il merito di Garibaldi? Ce lo spiega Denis Mack Smith, in un libro ancora attualissimo, nonostante sia stato pubblicato nel 1959, dal titolo Garibaldi.

 

“La notorietà di Garibaldi fu un ingrediente essenziale nel guadagnare molta gente comune a una causa nazionale che sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi.  Non c’è dubbio che il prestigio di Garibaldi fra la gente ordinaria contribuì a nascondere quello che stava accadendo finché fu troppo tardi per opporsi.

In un Risorgimento che si sviluppa lungi da piani preconcetti, da coordinazione e direzione, Garibaldi fu prezioso per quel suo spensierato prendere la legge in mano senza calcolare il costo e le conseguenze; con la sua fede cieca è irragionevole e con il coraggio di assurdi convincimenti, mostrò che un uomo può smuovere le montagne e spostare una frontiera”.

Continua Smith: “La guida di Garibaldi aveva il valore di un simbolo, di un malcontento contro gli accomodamenti, i compromessi ufficiali. […] Il contrasto tra Garibaldi e Cavour era lo scontro tra monarchia e rivoluzione, tra l’Italia reale e l’Italia ideale… vinse l’Italia reale… vinse Cavour. Per conseguenza il momento culminante del Risorgimento assunse il carattere di conquista, di sovrapposizione delle strutture dello Stato conquistatore sulle regioni liberate. Garibaldi aveva chiesto al re di sostituire una politica di compromessi e di ambiguità con la rivoluzione popolare; Vittorio Emanuele, scegliendo il Cavour, diede all’Italia un’impronta politico sociale liberale e moderata. Con Garibaldi fu sconfitto il Risorgimento come rivoluzione democratica e sociale”.

Garibaldi non si rassegna: morto Cavour nel 1861, subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, decide che forse è il momento di attuare quello che il suo ideale prevedeva, ossia l’unificazione, per la realizzazione di un di una politica nuova, mai vista. 

Tuttavia, nel luogo dello scontro tra garibaldini ed esercito savoiardo è sorto un confine: quel luogo è il confine tra la piena realizzazione di una Repubblica democratica, dove la sovranità appartiene al popolo, e una monarchia oppressiva, in grado di generare e ingrandire la questione meridionale.

Il revisionismo vorrebbe che fosse Garibaldi la causa di tutto questo, attribuendo al Regno borbonico ricchezze che non esistevano, consapevolezze popolari che forse non ci sono nemmeno oggi. Occorre riconoscere, invece, che Garibaldi era conscio che doveva esserci una guida per la realizzazione di un’identità popolare volta alla libertà e all’assunzione di responsabilità civile di tutto il popolo meridionale, il quale era spronato da una manciata di uomini colti e lungimiranti, ma in numero insufficienti per realizzare il progetto della libertà. Questo non poté realizzarlo.

Perché abbiamo quindi definito Garibaldi un poeta, vista la sua più che realistica visione politica? Perché, paradossalmente, il poeta, nonostante la nostra attuale e degenerata idea di poesia come elucubrazione e svago mentale, come fuga dal reale, è l’unico che sa come si fa, come si costruisce razionalmente la comunità, ce lo insegnano i Greci e in particolare Omero.

Certamente non per l’alto valore artistico letterario dei suoi poemi e dei suoi romanzi, noi definiamo poeta Garibaldi, (per chi non lo sapesse, spero in pochi Garibaldi fu anche uno scrittore di romanzi storici e anche di un Poema autobiografico) ma per la sua visione, capace di costruire il reale che noi oggi stiamo vivendo, come emerge dalla sua opera poetica, di cui si riportano alcuni esempi.

 

Carme alla morte e altri canti inediti

Sulle tue cime di granito, io sento
Di libertade l’aura, e non nel fondo
Corruttor delle Reggie, o mia selvaggia
Solitaria Caprera. I tuoi cespugli
Sono il mio parco, e l’imponente masso
Dammi stanza sicura ed inadorna,
Ma non infetta da servili. I pochi
Abitatori tuoi ruvidi sono,
Come le roccie che ti fan corona,
E come quelle alteri ed isdegnosi
Di piegar il ginocchio. Il sol concerto
S’ode della bufera in questo asilo,
Ove né schiavo né tiranno alberga.
Orrido è il tuo sentier, ma sulla via
Dell’insolente cortigiano il cocchio
Non mi calpesta, e l’incontaminata
Fronte del fango suo vil non mi spruzza.
Io l’Infinito qui contemplo1, scevro
Dalla menzogna, ed allor quando l’occhio
Mi si profonda nello spazio, a Lui
Che il seminò di Mondi, un santuario
Erger sento nell’anima: scintilla
Vicinissima al nulla, ma pur parte
Di quel tutto supremo. Oh! sì di Dio,
Sì! particella dell’Eterno sei,
Anima del proscritto!

 

Canto XXIX del poema autobiografico
versi tratti dalla poesia Aspromonte

Grazie, Italiana gioventù! la vita

Ch'io vi devo è a voi sacra. Alle venture
Pugne la serbo e quel pensiero solo
Me la fà cara. Ove l'egra mia salma
Non corrisponda al cuor, nelle battaglie
Non mi lasciate indietro. Oh! questo pondo
Ben conoscete, o generosi; e carchi
Io vi ho veduti di queste miserie
Tra le scoscese d'Aspromonte rupi
Balzarmi al lido. Un corridor, un carro
Potrò forse salir, ma se impotente!...
Non mi lasciate indietro. Oh! non negate
A me che, fido per trent'anni al vostro
Liberator vessillo, altro non volli
Io guideron che Libertade. Oh! Dio,
Non mi negate nel final conflitto
Tra i primi un posto e salutar tra i primi
Il santo giorno, che l'Italia sgombra
Sia da ladroni e che non più lamento
S'oda d'oppresso sulla nostra terra.





lunedì 7 aprile 2025

Nessuno si risparmi in amore


 ECONOMIA D'AMORE

di Ilda Tripodi




"Perché lo vogliamo a tutti i costi questo amore?" ci chiede Ilda Tripodi nel suo più recente canto poetico.


Qual è l'oggetto a cui dirigere il nostro amore e da cui pretendere una trasformazione in "soggetto" amante? Sta a noi la difficile scelta, perché tutti abbiamo bisogno di un soggetto che ci ami. Vogliamo essere amati da uno specchio, un altro da noi che sia capace di restituirci la nostra immagine appagata e sicura. Colui da cui vogliamo amore, pare essere il Dio stesso dell'amore. 


"Siamo fragili", ci ricorda il verso, e siamo l'oggetto di Dio, a cui, di rimando, la divinità dà amore. Dobbiamo a questo punto noi stessi diventare soggetti amanti, capaci di prenderci cura di quella divinità che, per non annientarci e rimanere sola, deve perdere la memoria dei nostri reiterati tradimenti e delle nostre offese e mancanze. 


La poesia di Ilda Tripodi è un labirinto di anafore, epanalessi, epifore e anadiplosi; un labirinto senza uscita, come l'amore. In questo viatico scosceso, ogni curva è un'opportunità, ma anche apertura su un precipizio mortale, se ci si addormenta... se ci si distrae. Ecco che la poesia ci sprona: "Non ti addormentare figlio di carta", perché il sonno è nemico del perdono, giacché in esso tutto si fa psicosi e diventa violenza. Il precipizio del labirinto è proprio il sonno che porta nell'incubo. Ci salva la veglia, il ballo e l'imprevisto. Il canto del fringuello sveglia il ritmo del cuore, ferito e sanguinante; lo stesso cuore che palpita fino ad esplodere di gioia o di paura.

 
La continua brama di un "soggetto" che colmi il nostro horror vacui è generata da questa mancanza, ce lo insegna Platone, e la ricerca diventa inevitabile quanto fatale. Ilda Tripodi ci ricorda che la ragione di un continuo interrogare l'amore è una lotta di sopravvivenza. Quando l'uomo chiede, sussurra alla Luna la poesia dei suoi affanni, quando lo sguardo contempla il Nulla, ecco che prende a interrogare Amore. La poetessa chiede: "L'amore crede nell'amore?", possiamo affermare che sicuramente ci crede il poeta, e anche se tutto sembrerebbe esser stato detto su questo tema, non è affatto vero, giacché l'amore è un universo sterminato da esplorare e comprendere. 


Quella di Ilda Tripodi è una visione intima, una confessione, un grido d'aiuto, pertanto un canto universale, che nasce da una accettazione coraggiosa di ciò che non si può cambiare, nemmeno con la morte. 
In una società in cui non c'è più spazio per l'intimità, dove tutto sembra doversi svelare ad ogni costo; in una società in cui si vive di apparenza, e i simboli sono andati perduti, l'unica salvezza è la poesia, fabbrica di simboli, facitrice di neologismi e suoni. Occorre una poesia ermetica per indurre l'uomo allo scavo profondo, nel tentativo di trovare se stesso, quel se stesso smarrito nella confusione dell'apparire. 


Questo libro è una guida all'onestà, un percorso di fede nell'uomo che fallisce; un canto d'amore per Dio e le sue Creature; un atto di donazione del femminile al maschile e viceversa, un gesto perfettibile con il quale accogliere l'avvento del divino e dell'umano.


domenica 6 aprile 2025

Uccidere la madre che dice sì

Quasi una vita, per imparare ad accettare un NO



"Una delle molle della volontà di potenza e di potersi vendicare un giorno di una causa di nostre sofferenze per esempio delle donne a causa di una donna, degli uomini a causa di un'infanzia o adolescenza maltrattate. Così si può spiegare la carriera di un grande artista o rivoluzionario. I nostri nemici si riducono sempre a quei due o tre tipi che ci hanno fatto soffrire nella adolescenza e nella giovinezza. Ma soprattutto è da considerare particolarmente la donna. Dico, sembra che ci si possa vendicare un giorno. Ma la lotta sarà così dura che si arriva al termine sgombri di rancori. E chi ne serba è un mediocre." Corrado Alvaro. Quasi una vita p. 88



Gli uomini che uccidono le donne o le picchiano stanno semplicemente uccidendo e picchiando la propria madre, quella donna che non li ha saputi accompagnare nella crescita e renderli autonomi e liberi, quella donna che non ha mai detto loro "NO". Un no definitivo e senza possibilità alcuna che diventi .
Nella nostra epoca è canone educativo il soddisfacimento del desiderio dei figli, "ad ogni costo"... "costi quel che costi"... 


I risultati di una infanzia costellata di , esaltano la Volontà di potenza, di cui parla Corrado Alvaro nel passo di Quasi una vita su citato, a questo si può unire il rampantismo epocale, che spinge a prendere tutto ciò che si desidera, senza rispettare i tempi della "maturazione" degli eventi, a cui ci aveva educati il cristianesimo. 
Aspettare la maturazione non significa rassegnarsi, piuttosto implica la capacità contadina di preparare il terreno per accogliere il seme, il quale ha necessità dei suoi tempi per germogliare. Il NO alla fretta e alla violenza lo devono dire le DONNE/MADRI, per evitare di far insorgere nel figlio il desiderio di uccidere chi dice loro un NO che non sono abituati a contemplare.


La madre che piange per il figlio assassino finito in carcere, non piange per la vittima ma perché anch'ella, inquanto madre, si trova davanti al primo NO imposto al figlio da altri, da coloro che lo hanno rinchiuso e privato, giustamente, della libertà che non ha saputo accogliere e meritare.
Accudire i figli e gli alunni non significa spianare la loro strada, ma sostenerli mentre cadono nel TENTATIVO di spianarsela da soli.

domenica 30 marzo 2025

Da Aristotele ai cartoni animati giapponesi.


 

La violenza come stile di vita...


In Cattiva maestra televisione[i] Karl Popper sostiene la necessità di istituire un comitato scientifico in grado di vigilare sui programmi televisivi da trasmettere, onde evitare che la violenza divenga tanto comune da non destare più alcun imbarazzo sia nel guardarla sia nel praticarla, facendosi abitudine. Il saggio in questione risale al secolo scorso, quando è già ampiamente dimostrato che i programmi televisivi possano interferire sull’educazione delle nuove generazioni, osservando per di più che il filosofo viennese non ebbe modo di conoscere una televisione recipiente di reality e talent show, le oscenità del nuovo millennio.

 Tutti coloro che sono coinvolti nel fare televisione agiscono come educatori, perché la televisione porta le sue immagini sia davanti ai bambini e ai giovani, sia agli adulti. Chi fa televisione deve sapere di aver parte nell’educazione degli uni e degli altri[ii].

Giacché gli effetti di un sistema educativo possono essere testati solo quando gli educandi diventano educatori, ci chiediamo quale ruolo hanno avuto i programmi televisivi, che dagli anni Cinquanta del xx secolo hanno accompagnato i pomeriggi e le sere dei ragazzi occidentali, sulle coscienze individuali e sul cambiamento di usi e costumi.

Prima che il televisore divenisse un elettrodomestico come il frigorifero e la cucina elettrica, c’era la radio, uno strumento che imitava la voce narrante dei nonni. Attraverso questo congegno era possibile perpetrare la tradizione del racconto orale e dell’educazione all’ascolto, sia mantenendo le forme pedagogiche tradizionali sia innovando gli strumenti necessari per la loro affermazione. La garanzia di una evoluzione senza cancellazione è tutelata dall’invenzione di Guglielmo Marconi. Non vi è dubbio che la radio abbia mutato il modo di comunicare e di raccogliere informazioni sull’attualità e che essa abbia favorito lo scambio sempre più proficuo tra le varie parti del pianeta, diffondendo cultura e conoscenza.

I bambini nati e cresciuti durante gli ultimi decenni del xx secolo hanno avuto un’infanzia differente da quella dei loro padri e nonni. La rottura violenta con le tradizioni è stata determinata sì dal cambiamento del sistema economico (dal momento che la frenesia del rampantismo degli anni Ottanta e Novanta ha deteriorato i rapporti tra generazioni: gli anziani, non più produttivi, non sono una risorsa, ma un peso, sia economico sia sociale), ma anche da una massificazione culturale, un impoverimento delle conoscenze, divenute sempre più superficiali. Quei nonni che sono cresciuti ascoltando i cantastorie e i cuntisti o leggendo libri e sorbendo opere liriche, adesso non possono più essere utili. I loro racconti sulla guerra sono noiosi e pleonastici: in tv ci sono programmi più avvincenti (che possono intrattenere i bambini mentre i genitori sono intenti ad aumentare il patrimonio di famiglia lavorando dalla mattina alla sera) e l’irrealtà che li contraddistingue non mette in campo, per esempio, l’impotenza dei soldati impegnati in un conflitto. Al contrario di quanto faceva la radio, la quale raccontava la realtà[iii], in tv le guerre cominciano ad essere descritte come eventi straordinariamente eccitanti e positivi. Basterebbero però poche frasi di un grande scrittore per far riflettere:

Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. Come me lo potevo immaginare io ‘sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in guerra, tutto quel che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini?[iv]

Tornando un po’ in dietro, i bambini che si riunivano in piazza davanti a un lenzuolo dipinto ad ascoltare i cantastorie, sentivano la forza della parola pervadergli l’animo. Anche loro ascoltavano e guardavano scene di violenza, ma nessun atto brutale era fine a se stesso. Se pensiamo alle saghe eroiche dei Paladini di Francia, ci possiamo rendere facilmente conto che i valori che esse trasmettevano erano quelli dell’amicizia, dell’amore fedele, che dura tutta la vita, anche a costo di enormi sacrifici e rinunce, e del rispetto delle regole. I traditori erano disprezzati da tutti: come si può ammirare Gano di Magonza, il quale il 15 Agosto del 776 fa trucidare, per livore, la retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle? Come si può non disprezzare Golo, l’ignobile ministro di Sigfrido, marito della bellissima e pia Genoveffa di Brabante[v], il quale inganna il proprio re, nel tentativo non riuscito di giacere con la regina?

Esempi che i giovani vivevano nei racconti dei nonni o nelle letture per ragazzi. Tutti volevano essere come Fioravante[vi], sì ribelle, ma onesto e valoroso, pronto alla morte per salvare l’onore di una donzella o per sostenere una giusta causa.

La maggior parte dei giovani di quella generazione avrebbero voluto incarnare le virtù di questi eroi, perfettamente in linea con l’eudemonia[vii] di cui parla Aristotele nell’Etica Nicomachea.

Se il bene per il singolo individuo e per la città sono la stessa cosa, conseguire e mantenere quello della città è chiaramente cosa più grande e più vicina al fine, poiché tale bene è, sì, amabile relativamente al singolo individuo, ma anche più bello e più divino in relazione ad un popolo e a delle città. E dunque la nostra ricerca, che è una ricerca politica, è volta verso tali obiettivi[viii].

Anche i pusillanimi trovavano forza in quei racconti, perché, come sostiene Aristotele, nessuno nasce coraggioso, ma chiunque può diventarlo. Più gesti coraggiosi si compiono più viene naturale continuare a compierne. Ciò, ovviamente, vale anche per i vizi: l’abitudine può rendere l’uomo migliore o peggiore, dipende da quale abitudine stiamo assumendo.

Bisogna che l’allevamento e le occupazioni dei giovani siano regolati da leggi, giacché non saranno penosi se saranno divenuti abituali. Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un allevamento ed una educazione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li mettano in pratica e che vi si siano abituati[ix].

Quali consuetudini hanno assunto i ragazzi teledipendenti? Nelle narrazioni orali, i nostri antenati trovavano l’energia per credere in una possibilità. I gesti violenti, in quei racconti, sono l’ultima ratio e non l’unica forma possibile per realizzare qualcosa.

La radio ha contribuito, pure dopo la nascita della tv, a diffondere parole ed esempi, con la lettura dei classici e la propagazione della musica d’autore, compresa l’opera lirica. La tv, invece, passata la sua prima fase pedagogica[x] diviene mezzo pericoloso:

La televisione produce violenza e la porta in case dove altrimenti violenza non ci sarebbe[xi].

La violenza è divenuta oggi uno stile di vita, tanto che possiamo parlare di un vero e proprio culto della violenza: l’esaltazione della brutalità come mezzo d’azione per conseguire ogni obiettivo. I mezzi di comunicazione di massa sono additati sempre più spesso come i principali promotori di questa cultura sociale, a causa dell’estetizzazione della violenza: “l’arte del sottomettere l’altro” è “bella” da vedere, provoca godimento, gratifica, consente di sfogare le proprie frustrazioni. Anche lo sport è divenuto battaglia e l’avversario un nemico da annientare. Questo atteggiamento potrebbe scandalizzarci, ma non è pensabile ignorarlo. Va precisato che le scene violente non sono una prerogativa della tv: anche l’opera lirica[xii] riserva scene brutali[xiii], così come la letteratura e i cartelloni dei cantastorie, basta osservare i due di seguito riportati. Perché accettiamo questa violenza e non quella che troviamo nei cartoni animati? Perché le due forme dovrebbero essere eticamente differenti?

 

Cartelloni realizzati da Vincenzo Astuto - 1964[xiv]

 

Lasciamo aperta questa domanda, sperando che alla fine del presente scritto la risposta giunga da sola. L’importanza delle esperienze vissute durante l’infanzia, per lo sviluppo della nostra personalità e il conseguimento di un equilibrio, pare essere un elemento acquisito dalla scienza psicologica. Muovendo da tale certezza, riportiamo un passo del monologo di Aljoša Karamazov nel Discorso presso la pietra a conclusione del romanzo di Dostoevskij:

 

Sappiate che non vi è nulla di più sublime, di più forte, di più salutare e di più utile per tutta la vita, di un buon ricordo e soprattutto di un ricordo dell’infanzia, della casa paterna. Vi parlano molto della vostra educazione, ma qualche meraviglioso, sacro ricordo che avrete conservato nella vostra infanzia, potrà essere per voi la migliore delle educazioni. Se un uomo porta con sé molti di questi ricordi nella vita, egli sarà al sicuro fino alla fine dei suoi giorni[xv].

 

Che cosa ricorderanno i nostri ragazzi? Abbiamo una responsabilità altissima: la loro salvezza dipende da quello che riusciremo a trasmettere loro, in modo che abbiano memorie, alle quali fare riferimento, nei momenti in cui la vita li porrà di fronte a una scelta etica. Molti di noi rammentano con più vivezza i racconti mitici e le saghe narrate dai nonni anziché molte delle lezioni magistrali udite a scuola. È possibile anche che alcuni maestri abbiano lasciato in noi dei ricordi, ma la presenza di essi nella nostra mente sarà direttamente proporzionale alla passione usata nel momento del racconto. In quest’ottica anche la narrazione di gesti violenti avrebbe una sua significanza, che non potrebbe in alcun caso essere fraintesa.


Generazioni di ragazzi sono cresciuti ascoltando la storia truculenta di Cappuccetto Rosso: un lupo adesca una bambina nel bosco, la inganna, ne carpisce la fiducia, la divora e poi se la dorme soddisfatto. Arriva il cacciatore, uccide il lupo, gli taglia la pancia e da essa vengono fuori nonna e nipotina. Una scena che avrebbe potuto ispirare le vicende di Grattachecca & Fighetto[xvi], i protagonisti dei cartoni animati che appassionano Bart e Lisa Simpson. Qual è la differenza tra la violenza in Cappuccetto Rosso e quella vista in tv da Bart e Lisa o da tutti i nostri ragazzi cresciuti a pane e tv? Nel primo caso c’è il medio della parola, colui che racconta è un adulto, il quale sottolinea la ferocia del lupo e protegge allo stesso tempo tra le braccia il bambino che ascolta. Rassicurandolo gli insegna che nel mondo esiste il male, ci sono i furbi e anche i malvagi. Nello sguardo dell’adulto, il bambino può scorgere la riprovazione per il gesto immondo del lupo e quindi comprendere bene che quell’azione è eticamente da evitare (ovviamente dipende da chi racconta e per quale motivo). La televisione non è in grado di fungere da medio, non può interrompersi nel caso in cui i bambini volessero che ciò avvenisse: la tv fornisce overdose continue di scene brutali alle quali nessun bambino può opporsi da solo.


Il ricordo diviene fondante per la formulazione delle idee e per l’ampliamento della fantasia, doti necessarie in ogni professione, soprattutto in politica: un amministratore senza fantasia è privo di mezzi per trarre fuori dai guai una nazione. Ogni guerra, potremmo azzardare, è il frutto della mancanza di inventiva. Lo scontro violento dimostra che non si è stati sufficientemente creativi per trovare una soluzione a un problema. Tutti i programmi televisivi che utilizzano la violenza ed il sesso per fare odience[xvii] sono stati montati da gente priva di fantasia. I racconti dei nonni erano sì ricchi di violenza, ma la collocazione di essa nel racconto aveva la funzione di dimostrare che la brutalità era spregevole e inutile, quindi da evitare. Anche Frankenstein cerca di sottrarsi all’aggressività: il mostro aspira alla comprensione e all’ascolto ed è in grado, qualora se ne presenti la possibilità, di tenere in mano un fiore e di sperare che il suo creatore gli dia una compagna, ché lo strappi alla solitudine. Il creatore, però, si rende conto di avere una responsabilità verso i posteri:

 

Avevo il diritto, per un interesse personale, di infliggere una simile condanna alle generazioni future? […] Rabbrividii al pensiero che le età future avrebbero potuto maledirmi come la loro rovina, come colui che, nel suo egoismo, non aveva esitato ad acquistare la propria pace a prezzo, forse, dell’esistenza dell’intera razza umana[xviii].

 

Il mostro, il demone, come lo chiama la Shelley, non viene assecondato, ma fermato. Egli si perderà tra i ghiacci dell’estremo Nord, ciò a dire che è solo “congelato” e che potrebbe riaversi in qualunque momento, ritornando a reclamare il suo spazio. E noi? siamo consapevoli della responsabilità che abbiamo verso le future generazioni, quando lasciamo che sia la televisione a educare al posto nostro? Col disinteresse potremmo risvegliare i tanti mostri creati da Frankenstein che abbiamo creato, con conseguenze imprevedibili.

I ragazzi pre-televisivi sognavano di essere come Orlando, non certo come Gano. L’eroe era sempre il buono, nei racconti orali dei nonni. Non c’era nelle pagine di Andrea da Barberino[xix] un eroe buono e un eroe cattivo: c’era l’eroe e c’era l’antieroe. Ognuno aveva il suo ruolo: le certezze dei giovani lettori o ascoltatori erano garantite. Non ci può essere ambiguità in un processo educativo. Certamente bisogna far comprendere ai ragazzi che ci possono essere errori di valutazione, ma permane la necessità di dare loro dei punti di riferimento, che gli consentano di impostare le loro scelte di vita. Solo insegnanti motivati potranno però riuscire in questo intento.

 

Indifferenti a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti genitori. Per esempio, nelle scuole d’ogni ordine e grado insegnanti così ce ne sono a legioni. E questo è un dato piuttosto disperante, perché quello dell’insegnante è un mestiere che offre molti spazi per le “rivelazioni” – e questo non ha nulla a che fare con la “missione”, ma molto con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che hanno voglia di esistere davvero e lo dicono forte tutti i giorni[xx].

 

Se noi non saremo in grado di rispondere a questa esigenza, i giovani si cercheranno altri maestri, tra questi la televisione. Il bisogno dei ragazzi, manifestato soprattutto durante l’adolescenza, di trovare delle “rocce” alle quali aggrapparsi, va soddisfatto sempre, altrimenti si rischia di perdere la “precedenza”: la tv e i giochi elettronici riempiono un vuoto, che spetta alle parole dei “padri”, siano essi maestri, insegnanti o adulti in genere.

La tv delle origini, in Italia, era “fatta” da persone che conoscevano il valore della trasmissione dei saperi in generale e della storia in particolare. Non è possibile in questa sede analizzare tutti i programmi trasmessi dalla tv di stato italiana, ma si porteranno alcuni esempi, attraverso i quali si tenterà di dimostrare che anche la tv può essere strumento pedagogico, se verrà usata tenendo in conto che non deve essere solo la violenza a destare la nostra attenzione, ma anche i piccoli gesti che, quotidianamente e con molta leggerezza, ci allontanano da un comportamento etico. Non raccogliere gli escrementi del proprio cane o buttare una carta dal finestrino della macchina o una cicca di sigaretta sulla spiaggia sono gesti apparentemente innocui, ma che nascondono un’assuefazione al mancato rispetto delle regole del vivere comune.

 

La violenza è cresciuta e il progresso tecnologico dei mezzi di offesa provoca un delirio di onnipotenza. Ma la causa profonda è un’altra ed è paradossale. In una società in cui “l’etica è disfatta”, gli unici comportamenti che consideriamo gravemente illeciti sono gli atti di violenza[xxi].

 

Molti bambini degli anni Settanta hanno appreso un atteggiamento ecologista guardando in tv i Barbapapà[xxii], attraverso la semplicità di un disegno animato hanno compreso la necessità di non inquinare e di amare gli animali, tutti. Nessuna violenza in quelle immagini, che condannavano il gesto del furbetto di turno che scaricava immondizia vicino a un lago. Barbapapà, tutto rosa, interveniva e faceva vergognare lo sporcaccione, il quale, rosso in viso e con lo sguardo basso, provvedeva a riparare il danno.

Alla fine degli anni Sessanta la tv italiana trasmetteva programmi come La freccia nera, uno sceneggiato del 1968, diretto dal regista Anton Giulio Majano e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson. Gli episodi furono sette, in onda sul primo canale della rai dal 22 dicembre 1968 al 2 febbraio 1969. Un esempio esteticamente ben riuscito utilizzato per spiegare ai ragazzi che, lottando onestamente, arriva sia il riconoscimento sia la giustizia. Come dimenticare Rintintin[xxiii], il pastore tedesco che in Italia ottenne un notevole successo negli anni Sessanta, quando la rai ne acquistò i diritti per trasmetterlo sull’unica rete dell’epoca. Altri sceneggiati tratti da romanzi di successo furono Tarzan e Sandokan, che andarono in onda tra gli anni Settanta e Ottanta. Eroi positivi, pronti al sacrificio per aiutare il prossimo, in perfetta linea con l’etica aristotelica: la mia felicità dipende dalla felicità degli altri. Quel prossimo che, kantianamente, deve essere sempre il fine del nostro agire e mai un mezzo.

Gli anni Ottanta, nella televisione italiana, si aprono con l’invasione dei cartoni animati giapponesi, i quali, è vero, a volte erano violenti, ma non più delle battaglie descritte nelle vicende dei paladini di Francia o dello scontro cruento tra Ettore e Achille. Riteniamo che questi cartoni conservassero l’eudemonia aristotelica: sin dalla sigla d’inizio era chiaro il messaggio che intendevano lanciare:

 

Uno per tre, e tre per uno perché, insieme noi usciamo sempre dai guai, e difendiamo la terra, dall'ombra della guerra, il nostro cuore batterà,
per la libertà. Intrighi e loschi piani dei mostri disumani, il nostro raggio spazzerà nell'immensità. Daitarn, Daitarn[xxiv].

 

Una lotta da condurre “insieme”, tutti uniti contro la guerra e per la libertà. Ancora una volta il messaggio è quello del bene comune come presupposto della propria felicità. Tuttavia, guardando le immagini sotto riportate, in cui Daitarn 3 ha il pugno teso, per colpire l’avversario, si nota che la violenza è una via apparentemente irrinunciabile, così come lo era nelle battaglie medievali, per realizzare il bene.

 

 

 

Rinaldo e Mambriano si sferravano colpi disperati. Il paladino, a un certo punto, calò un tal fendente che mandò a rotolare il nemico sul suolo e stava per finirlo allorquando un leone si slanciò su di lui che dovette pensare a difendersi dal nuovo pericolo. Alla fine anche il leone cadde con la testa spaccata, ma Mambriano, benché ferito, s’era riavuto e riappiccò la battaglia[xxv].

 

Anche in queste righe tratte dai racconti dei Reali di Francia, così come nelle immagini sopra riportate, la violenza è protagonista. In entrambi i casi è considerata uno strumento necessario per far trionfare la giustizia. Ovviamente la brutalità non può essere la via per affermare le proprie ragioni, ma pare che gli uomini non sappiano farne a meno, quindi i bambini vanno educati alla responsabilità.

La facilità con cui da sempre poniamo fine alla vita di una persona è sconcertante: le guerre “intelligenti” a cui ci ha abituati la tv la dicono lunga sulla nostra insensibilità, acuita dall’abitudine. I robot dei cartoon degli anni Ottanta combattono ancora come dei cavalieri medievali: lottano corpo a corpo e l’onore è una imprescindibile condizione di base di ogni loro agire. Nei nuovi disegni animati che “riempiono” i pomeriggi dei bambini dei nostri giorni, la violenza spesso è gratuita: la finzione ha appreso l’orrore dalla realtà e l’ha trasformato in farsa. L’insensibilità innanzi alla morte ci impedisce di comprendere fino in fondo quanto sostiene Don Chisciotte parlando delle armi da fuoco:

 

Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggì, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina) e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli[xxvi].

I tempi cambiano, ma l’uomo pare essere sempre più accostumato alla morte violenta. Essa passa senza lasciare traccia, e chi resta si dimentica in fretta l’orrore, giacché oggi in tv tra un omicidio e l’altro siamo allietati dalla pubblicità di un gelato alla vaniglia o di un buon caffè, sorbito tra le nuvole di un paradiso in cui le nefandezze umane si ripetono tali e quali a quelle a cui assistiamo ogni giorno. Tanto che l’unica cosa auspicabile sarebbe di finire all’inferno. La violenza, un tempo, era fermata su dipinti, come monito, mettendo in mostra la sua immobile inutilità. Se guardiamo il quadro di Rubens, Le conseguenze della guerra, del 1638, esposto a Palazzo Pitti a Firenze, ci possiamo facilmente rendere conto quanto terribile fosse la percezione di quell’evento.

 


Probabilmente Rubens aveva vissuto la guerra dei Trent’anni che dal 1618 fino al 1648 gettò l’Europa in una tragica condizione economica e sociale. La violenza è aborrita, ma nello stesso tempo esaltata, come condizione in cui l’uomo può evidenziare il suo valore, legato com’è, ancora dopo millenni, alla convinzione che la supremazia fisica sia un valore da perseguire.

Nella tv dei nostri giorni, siamo passati dai cartoni animati che esaltano la violenza come mezzo a programmi che elogiano la violenza come fine. La differenza è notevole, le conseguenze le potremo constatare in un prossimo futuro. La strada potrebbe essere quella che Aristotele ci indica nell’Etica Nicomachea: occorre educare i giovani al bello, affinare la loro sensibilità, affinché trovino brutto guardare orrori per divertimento, affinché trovino osceno ascoltare e dire turpitudini:

L’uomo per bene, che vive orientato al bello, ubbidisce al ragionamento, l’uomo malvagio, che desidera solo il piacere è punito con il dolore come una bestia da soma. […] La cosa migliore è che vi sia una corretta educazione pubblica; ma se queste cose vengono trascurate dal punto di vista pubblico, si riconoscerà che è a ciascun individuo che conviene aiutare i propri figli ed i propri amici a raggiungere la virtù[xxvii].

Non siamo in grado di sostenere se la violenza presente nei miti, nelle leggende e nei dipinti sia da preferire a quella dei cartoni animati giapponesi, né se la brutalità alla quale la tv di oggi ci ha reso avvezzi possa determinare una decadenza culturale, ma possiamo di certo essere concordi con lo stagirita nel ritenere che l’educazione al bello può ancora oggi essere una via verso l’equilibrio.

 


[i] Karl R. Popper, “Una patente per fare la tv” in Cattiva maestra televisione, a cura di Giancarlo Bosetti. Marsilio, Milano, 1996. pagg. 33-45.

[ii]  Ivi 42.

[iii] Basti pensare al ruolo di Radio Londra durante la Seconda guerra mondiale.

[iv]Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit, tr. it. di Ernesto Ferrero: Viaggio al termine della notte, (TEA, Milano, 2002), pag. 21.

[v]          La leggenda di Genoveffa di Brabante fa la sua prima apparizione nella letteratura popolare nel secolo VIII. Una prima elaborazione della vicenda si deve al gesuita Ceresiers (1638), che attribuisce a Genoveffa il titolo di Santa, inaugurando la fortuna del soggetto, di cui presto si approprierà il teatro.

Cfr.: Genoveffa di Brabante. Dalla tradizione popolare a Erik Satie, a cura di Alfonso Cipolla, (Ed. SEB27, Torino 2004).

Francesco Idotta, “Il dialetto in forma letteraria. Genoveffa di Brabante. Da Cerisiers a Reggio Calabria”, in La Lingua dell’Altro. Il problema del dialetto nell’apprendimento scolastico. Uno sguardo didattico filosofico, (Città del Sole Ed., Reggio Calabria, 2011).

[vi] Per la Storia di Fioravante si veda la versione raccolta e trascritta nel libro: Francesco Idotta, La saga di Fiorvanti, Città del Sole Edizioni, (Reggio Cal. 1999). La versione originale della storia si può trovare nel sito internet: http://www.classicitaliani.it/index004.htm (Marzo 2011). Confrontando questa versione con quella riportata nella raccolta su citata si può notare la trasformazione che la vicenda ha subito nel corso del tempo ed il suo adattamento agli usi e ai costumi di Calabria, comprovando quanto fosse importante la narrazione orale per l’educazione delle generazioni passate.

[vii] Ossia la condizione di felicità considerata come fondamento dell’etica e come fine dell’esperienza umana. Solo chi è utile agli altri può essere utile a se stesso. L’agire per il prossimo disinteressatamente implica automaticamente il raggiungimento della propria felicità.

[viii] Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. Claudio Mazzarelli, (Bompiani, Milano, 2001), (X, 9, 1179b 35 – 1180a 4) pag. 403.

[ix] Ibidem.

[x] Le trasmissioni televisive in Italia iniziano il 3 gennaio 1954, a cura della RAI, in bianco e nero. L’autoregolamentazione a quel tempo prevedeva la non accettazione di scene turbanti la pace sociale ed incitanti all’odio di classe, il rispetto dei valori familiari e religiosi, il pieno rispetto della “santità matrimoniale” e il rifiuto delle scene erotiche. Per garantire il rispetto di queste norme, venne istituito, un Comitato per la determinazione delle direttive di massima culturali. Per ulteriori approfondimenti si veda: Monteleone Franco, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, (Marsilio, Milano, 2001).

[xi]  Karl R. Popper, “Una patente per fare la tv” in Cattiva maestra televisione, op. cit. pag. 40.

[xii] Fabrizio Dorsi, Rausa Giuseppe, Storia dell’opera italiana (Mondadori, Milano, 2000).

[xiii] Il primo atto della Turandot di Giacomo Puccini si apre a Pechino, in un imprecisato «tempo delle favole». Dall’alto delle mura, il Mandarino si appresta ad annunciare alla folla che la principessa andrà sposa a chi, di sangue regale, scioglierà i tre enigmi da lei proposti; ma il boia Pu-Tin-Pao è pronto a decapitare quelli che falliscono, come lo sfortunato principe di Persia, che salirà al patibolo al sorgere della luna. Tuttavia l’opera si concluderà ponendo in evidenza che la perseveranza nel conseguire Amore sarà premiata.

[xiv] Per ulteriori notizie consultare il sito internet: “Cuntastorie e Cantastorie” di Angelo Clemente: (2 Novembre 2011). http://www.irsap-agrigentum.it/Cuntastorie%20e%20Cantastorie.htm

[xv] Fëdor Michajlovič Dostoevskij, БРАТЬЯ КАМАЗОВЬІ, tr. it. Maria Rosaria Fasanelli, I Fratelli Karamazov, (Garzanti, Milano, 1992), pag. 1061.

[xvi] Grattachecca & Fichetto sono due personaggi del cartone animato preferito di Bart e Lisa Simpson (Simpson è una popolare sitcom animata creata dal fumettista statunitense Matt Groening a fine degli anni Ottanta per la Fox Broadcasting Company). Le vicende di Itchy & Scratchy, il nome originale di Grattachecca & Fichetto, rappresenta una sarcastica parodia splatter sia di Tom & Jerry sia di Titti & Gatto Silvestro. Sono un cartone nel cartone che mette in evidenza la violenza gratuita a cui sono sottoposti i ragazzini di oggi.

[xvii]“Si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e... l’audience li accetta, purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo...spezie sempre più forti sul cibo preparato, perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar sopra anche a un sapore disgustoso”. In K.R. Popper, Cattiva maestra televisione, op. cit., pagg. 34 e segg.

[xviii] Mary Shelley, Frankenstein or the modern Prometheus, tr. it. Bruno Tasso, Frankenstein ovvero il Prometeo moderno, (Fabbri ed., Milano, 1999), pag. 140.

[xix] Andrea di Jacopo da Barberino, è stato uno scrittore italiano vissuto tra il 1370 e il 1432 ca. È conosciuto soprattutto per essere stato l’autore de Il Guerrin Meschino. Traduttore delle canzoni di gesta francesi, fu autore di altre opere fra cui I Reali di Francia, Storie nerbonesi, Ugone di Alvernia, Storia di Ajolfo del Barbicone e di altri valorosi cavalieri e Aspromonte.

[xx] Giuseppe Pontremoli, Elogio delle azioni spregevoli, (L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004), pag 21.

[xxi] Paolo Rossi, Bambini, sogni, furori, (Feltrinelli, Milano, 2001), pag. 53.

[xxii] Un fumetto creato da Annette Tison e Talus Taylor, pubblicato in Francia nel 1970; Barbapapà è il nome del protagonista e per estensione di tutta la sua famiglia (Les barbapapas): il nome del protagonista deriva dall’espressione francese Barbe à papa, che significa “zucchero filato”. Dal fumetto nel 1974 è stata ricavata una serie televisiva giapponese, uscita in Italia nel 1976.

[xxiii] Rin Tin Tin o Rintintin o più semplicemente Rinty è il nome del pastore tedesco protagonista di numerose storie per ragazzi, tra cui una serie televisiva. Le storie di Rin Tin Tin sono ispirate alle vicende di un cane realmente esistito, con lo stesso nome: pare che fosse un pastore tedesco trovato da un soldato statunitense di nome Lee Duncan in un canile bombardato in Lorena, poco prima della fine della Prima guerra mondiale. Tornato a Los Angeles, Lee addestrò Rin Tin Tin che fu casualmente notato dal produttore cinematografico Darryl F. Zanuck, il quale ne fece un personaggio cinematografico, un eroe positivo, ecologista ante litteram.

[xxiv] Daitarn 3 l’Invincibile uomo d’acciaio è una serie televisiva giapponese di genere mecha, prodotta dalla Sunrise e creata da Yoshiyuki Tomino, con il mecha design di Kunio Okawara e le musiche di Takeo Watanabe e Yuji Matsuyama. La serie, composta da quaranta episodi, è stata realizzata nel 1978, e trasmessa per la prima volta in Italia nel 1980.

               A differenza di molte serie di robot trasmesse nella stessa epoca, in Daitarn 3 sono presenti citazioni da cinema, libri, fumetti e TV: nell’episodio trentasei, nel quale il protagonista Haran Banjo è oggetto di tortura psicologica, uno dei cattivi si chiama Phroid, è evidente il riferimento a Sigmund Freud. Un’altra caratteristica della serie è che Daitarn è uno dei pochi robot dotati di espressioni facciali. Per ulteriori approfondimenti si veda il sito internet: http://www.encirobot.com/dait/dait-ind.asp.  (6 Nov. 2011).

[xxv] I Paladini di Francia. Da Carlo Magno a Roncisvalle (Bietti, Milano, 1963), pag. 121.

[xxvi] Miguel De Cervantes, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, tr. it. Alfredo Giannini, Il fantastico idalgo Don Chisciotte della Mancia, (BUR, Milano, 2005).

[xxvii]  Aristotele, Etica Nicomachea, op. cit. (X, 9, 1180a 8 – 1180a 32), pagg. 402 - 405.